Von Jung, il Mistificatore
(Von Jung, the Mystific, American Monthly Magazine, giugno 1837)
di Edgar Allan Poe. Traduzione © 2020 di Mario Luca Moretti
Io credo che ci siano alcuni giovani Americani, anche oggi a Gotham, che erano all’Univerità di G…n durante “il dominio del Barone Ritzner von Jung”. Se è così, questi non mancheranno di ricordarsi di lui, e bene; ma forse, nondimeno, non sono in grado di capire perché io scelga di dare allo straordinario personaggio in questione lo strano appellativo che forma il titolo di questo articolo. Del resto è così che si definisce una storia.
Il mio amico, il Barone, veniva da una nobile famiglia ungherese, ogni cui membro (almeno fino a quando risalgono i più antichi documenti) era più o meno notevole per un qualche tipo di talento – la maggioranza di loro per quella specie di grotesquerie della cui particolarità Tieck, un rampollo della casata, ha dato una certa brillante, anche se per nulla la più brillante, delle esemplificazioni.
La mia conoscenza di lui – di Ritzner – cominciò nel magnifico Chateau Jung, dove una serie di buffe avventure, da non rendere pubbliche, mi gettò par hazard nei mesi estivi dell’anno 18…
Fu qui che io ottenni la sua attenzione, e qui, con un po’ più di difficoltà, una parziale visione della sua conformazione mentale. Nei giorni seguenti questa visione si fece più chiara, mentre l’intimità che me l’aveva permessa all’inizio si faceva più stretta; e quando, dopo una separazione di tre anni, ci incontrammo a G…n, sapevo tutto quello che era necessario sapere del carattere del Baron Ritzer von Jung.
Ricordo il clamore di curiosità causato dal suo arrivo all’interno dei recinti del collegio nella notte del 25 giugno. Ricordo ancor più distintamente che, mentre tutti i gruppi lo definivano “il più notevole uomo al mondo”, nessuno faceva anche solo un tentativo di motivare quest’appellativo.
Che lui fosse unique appariva così innegabile, che non si riteneva conveniente indagare in che cosa consistesse questa unicità. Ma, tralasciando questa faccenda per il momento, mi limiterò a osservare che, fin dal primo momento in cui pose piede nei confini dell’Università, cominciò a esercitare sulle abitudini, sulle maniere, sulle persone, sulle finanze, sui principi morali, sulle capacità intellettuali, sulle attività fisiche dell’intera comunità che lo circondava, un’influenza che era la più estesa, la più assolutamente eppure allo stesso tempo la più indefinita, impalpabile e nel complesso inspiegabile.
Così il breve periodo della sua permanenza all’Università caratterizza un’era nei suoi annali, ed è ricordata da tutte le classi di persone che vi presero parte o furono alle sue dipendenze come “la straordinarissima epoca formata dal dominio del Barone Ritzer Von Jung”.
Io ho visto – e si tenga bene a mente che i gentiluomini ancora viventi a Gotham che sono stati testimoni con me di queste cose, avranno un chiaro ricordo dei passaggi a cui ora faccio una mera allusione – ho visto, allora, azioni quanto mai oltraggiose e assurde esercitate con i mezzi più intangibili e all’apparenza inadeguati. Ho visto… ma, in fondo, che cosa non ho visto? Ho visto Villanova, la ballerina, tenere una conferenza sullo scranno della Facoltà di Legge, e ho visto D…, P…, T… e Von C…, tutti rapiti dalla sua profondità, e ho visto il rettore, il console, e l’intera facoltà sbalordita di fronte al roteare di una banderuola, ho visto Sontag accolto con dei fischi, e una ghironda con dei sospiri. Ho visto un carro bestiame, con i buoi, in cima alla Rotonda, ho visto tutti i maiali di G…n con delle parrucche, e tutte le loro mucche nella canonica. Ho visto 1500 gatti rumorosi nel campanile di San P… Ho visto la cappella del collegio bombardata – ho visto i bastioni del collegio coperti dai più angoscianti affissi – ho visto il mondo intero con le orecchie – ho visto il vecchio Wertmuller in lacrime – e, soprattutto, ho visto che questi fatti venivano considerati come ragionevoli, raccomandabili, le cose più inevitabili nel creato, grazie alla silenziosa, ma pervasiva e magica influenza del dominatore, il Barone Ritzer Von Jung.
Dopo l’arrivo del Barone a G…n, lui mi venne a cercare nel mio appartamento. Allora non dimostrava un’età particolare – con il che voglio dire che era impossibile indovinare la sua età in base ai dati che avevo a disposizione. Avrebbe potuto avere 15 o 50 anni, e aveva 21 anni e 7 mesi. La sua statura era simile alla mia, diciamo 1 metro e 73. Non era affatto un bell’uomo – direi piuttosto l’opposto. Il contorno del suo viso era piuttosto spigoloso e duro. La fronte era alta e molto bella; il naso un bitorzolo; gli occhi grandi, pesanti, vitrei e inespressivi. La bocca era più interessante da osservare. Le labbra leggermente sporgenti si appoggiavano l’una sull’altra in modo tale che era impossibile immaginare una combinazione di fattezze umane, per quanto complessa, capace di destare in modo altrettanto unico e totale l’idea di implacabile gravità, di solennità e di riposo. I miei lettori hanno così l’aspetto fisico del Barone davanti a loro. Ciò che dovrei aggiungere riguardo a quelle particolarità mentali, che io fin qui ho solo accennato, sarà detto con le mie parole – perché capisco che, nel parlare del mio amico, sono caduto senza volere in uno dei molti bizzarri manierismi letterari tipici del dominatore Barone Ritzner Von Jung.
Da ciò che ho già scritto, si sarà senza dubbio intuito che il Barone non era né più né meno che una di quelle anomalie umane che si incontrano di quando in quando, che fanno della scienza della mistificazione lo studio e il lavoro della loro vita. Un’attitudine particolare della mente gli offrì istintivamente lo spunto per questa scienza, mentre il suo aspetto fisico facilitava in maniera insolita la realizzazione dei suoi propositi.
Sono fermamente convinto che nessuno studente a G…n, durante quell’epoca famosa, bizzarramente chiamata il dominio del Barone Ritzner Von Jung, sia mai riuscito ad entrare nel mistero che racchiudeva il suo carattere.
Penso davvero che nessuno all’Università, tranne il sottoscritto, lo abbia mai sospettato capace di compiere uno scherzo, verbale o pratico – sarebbe stato piuttosto accusato il vecchio bull-dog all’ingresso del giardino – o il fantasma di Eraclito – o la parrucca dell’Emerito Professore di Teologia. E ciò persino quando era evidente che i più egregi e imperdonabili di tutti gli scherzi, dei trucchi e delle buffonerie concepibili, erano organizzati, se non direttamente da lui, almeno certo attraverso la sua azione di intermediario o con la sua connivenza. La bellezza, se così posso chiamarla, della sua art mystisique stava in quella consumata abilità (risultante da una quasi intuitiva conoscenza della natura umana, e da uno stupefacente autocontrollo) con la quale lui non mancava mai di dare l’impressione che le burle che era occupato a mettere a punto, nascevano in parte in contrasto e in parte in conseguenza dei suoi lodevoli sforzi per prevenirli, e per preservare il buon ordine e il decoro di Alma Mater.
La profonda, toccante, sconsolata mortificazione che, dopo ogni simile fallimento dei suoi encomiabili sforzi, ogni suo lineamento esprimeva, non lasciava il minimo posto al dubbio sulla sua sincerità, nel cuore dei suoi compagni anche più scettici.
Inoltre non era meno degna di osservazione la destrezza con cui riusciva a spostare il senso del grottesco dal creatore alla creatura – dalla sua stessa persona alle assurdità a cui aveva dato il via. Di come venisse compiuta questa difficile mossa, sono diventato del tutto consapevole dopo aver osservato a lungo le bizzarrie del mio amico, e grazie alle frequenti dissertazioni sul soggetto fatte da lui stesso; ma su questo argomento non posso dilungarmi.
Comunque, in nessun caso, prima di quello di cui parlo, io ho compreso che il tipico esito mistificatorio era la conseguenza naturale di suoi gesti, una coesione fra il ridicolo e il suo carattere, la sua personalità. Costantemente avvolto in un’atmosfera di eccentricità, il mio amico sembrava vivere secondo le rigidezze della società; e nemmeno la sua stessa famiglia ha, per un solo momento, associato alla memoria del Barone Ritzner Von Jung idee che non fossero austere e nobili.
Entrare appieno nei labirinti della finesse del Barone, o anche seguirlo in quella buffa carriera di pratica mistificazione che gli diede un così meraviglioso ascendente sugli spiriti pazzi di G…n, mi porterebbe molto più lontano di quanto mi sono imposto in quest’articolo. Da qui in poi posso dilungarmi su questi argomenti, ma non in pecto. So bene che nel risalire minutamente e coscienziosamente le operazioni di un intelletto come quello di Ritzner fino ai loro quasi magici risultati , in cui un ereditario e raffinato gusto per il bizzarro si univa a un intuitivo acume per i quotidiani impulsi del cuore (un acume che sfociava in una vera e propria morbosità) una terra vergine si sarebbe quindi spalancata davanti a me, ricca di novità e vigore, di emozioni ed eventi, e abbondante di un cibo insolito ma utile sia alla speculazione che all’analisi. Ma questo, come ho già detto, non si potrebbe compiere in uno spazio ristretto. Inoltre, il Barone vive ancora in Belgio, e non è al di fuori dei limite del possibile che il suo occhio cada su ciò che sto scrivendo. Sarò attento, perciò, a non svelare, almeno in questo modo e qui, la costruzione mentale che lui, con un suo stralunato piacere, continua a nascondere. Un aneddoto a caso, comunque, può dare una qualche idea dello spirito della sua pratique. Il metodo variava ad infinitum; e in questa ben sostenuta varietà, in primo luogo, stava il segreto di quell’insospettabilità con cui le sue molteplici operazioni furono condotte.
Durante l’epoca del suo dominio davvero sembrava che il demone del dolce far niente sovrastasse l’Università come un incubo. Quantomeno, niente si faceva a parte mangiare e bere e divertirsi. Gli appartamenti degli studenti furono convertiti in altrettante osterie, e non ci fu fra queste osteria più famosa o più frequentata di quella del vostro umile servo e del Barone Ritzner Von Jung – perché bisogna capire che eravamo amiconi. Le nostre baldorie qui erano molte, e chiassose, e lunghe, e sempre fruttuose di eventi.
In un’occasione avevamo prolungato la nostra seduta fino quasi all’alba, e un’insolita quantità di vino era stata bevuta. La compagnia consisteva di 7 o 8 individui oltre al Barone e al sottoscritto. Molti di questi erano giovani ricchi, di alto lignaggio, grandi orgogli delle loro famiglie, e tutti carichi di un esagerato senso dell’onore. Erano pregni delle più accese opinioni ultra tedesche riguardo al duello. A queste nozioni donchisciottesche alcune recenti pubblicazioni parigine, sostenute da 3 o 4 disperati e fatali incontri a G…n, avevano dato nuovo vigore e impulso; e così, per la maggior parte della notte, la conversazione si scatenò attorno all’argomento dominante del momento.
Il Barone, che era stato insolitamente silenzioso e distaccato nella prima parte della serata, alla fine sembrò svegliarsi dall’apatia, prese il sopravvento sula discussione, e discettò sui benefici, e in modo più particolare sulle bellezze, dell’acquisito codice di etichetta del passaggio delle armi, con un ardore, un’eloquenza, un’imponenza e, se posso dirlo, un sentimento che accesero il più caloroso entusiasmo nei suoi ascoltatori nel complesso, e assolutamente sbalordirono anche me, che sapevo bene quanto lui, in cuor suo, irridesse quegli stessi punti che ora difendeva, e specialmente sapevo come tenesse l’intera fanfaronade dell’etichetta nel sovrano disprezzo che merita.
Guardandomi attorno durante una pausa nel discorso del Barone (del quale i miei lettori possono farsi una vaga idea quando dico che rassomigliava al fervido, cantilenante, monotono, eppur musicale stile sermonico di Coleridge), io colsi i sintomi di un interesse persino maggiore di quello generale nel viso di uno della festa. Questo gentiluomo, che chiamerò Hermann, era un eccentrico sotto ogni aspetto, tranne forse nell’unico particolare che era uno dei più grandi stupidi di tutta la Cristianità.
Egli si sforzava, per altro, di procurarsi, in un ristretto gruppo dell’Università, una nomea per i suoi profondi pensieri metafisici e, credo, per qualche talento logico. Il suo aspetto personale era così peculiare che, ne sono sicuro, il tratteggio che faccio di lui verrà subito riconosciuto da tutti quanti sono stati in compagnia del modello.
Era uno degli uomini più alti che io abbia mai visto, parlo di un metro e 98 minimo. Le sue proporzioni erano singolarmente mal-apropos. Aveva gambe corte, arcuate e molto magre, mentre al di sopra di queste si ergeva un tronco degno dell’Ercole di Farnese.
Le spalle, nondimeno, erano rotonde, il collo alto eppure tozzo, e una generale inclinazione in avanti gli dava un’aria dinoccolata. La testa era di dimensioni colossali, sovrastata da una densa massa di capelli corvini lisci, di cui due enormi ciocche, rigidamente impomatate, si estendevano con un’aria lacrimosa lungo le tempie, e in parte al di sopra degli zigomi – una moda che in tempi recenti si è fatta strada (e c’è da meravigliarsi che non sia arrivata prima) nei gusti degli abitanti di Gotham.
Ma il volto in se stesso era la principale stranezza. La zona superiore era finemente proporzionata, e denotava un intelletto di tipo elevatissimo. La fronte era massiccia e alta, gli organi preposti alle idee sopra le tempie, come pure quelli di causalità, paragone ed eventualità, che si dispongono sopra l’os frontis, erano così straordinariamente sviluppati da attrarre l’immediata attenzione di quanti lo vedevano. Gli occhi erano pieni, brillanti, raggianti di qualcosa che può essere scambiato come intelligenza, e ben sostenuti dalle corte, diritte, pittoresche sopracciglia, che sono forse una delle più certe indicazioni di capacità generali. Il naso aquilino, inoltre, avrebbe fatto sfoggio di sé in un medaglione ebreo; di certo non si era mai visto niente di più magnifico, di più delicato o di più squisitamente modellato.
Tutte queste cose erano già abbastanza, come ho detto; erano le porzioni inferiori del viso che abbondavano di deformità, e che rivalevano l’inganno della parte superiore. Il labbro superiore (un labbro di enorme lunghezza) sembrava che fosse gonfio per la puntura di un’ape, ed era reso ancora più atroce da una piccola macchia di un baffo nerissimo immediatamente sotto il naso. Il labbro inferiore, all’apparenza disgustato dalla gonfia obesità del suo simile, sembrava piegato all’ingiù, ancor più rimpicciolito al confronto, come se se ne fosse allontanato il più possibile. Di conseguenza sembrava corto e sottile, ritraendosi come si vergognasse di essere visto; mentre il mento, che si ritraeva ancor più di quattro o cinque centimetri, avrebbe potuto essere scambiato per… qualunque cosa ma non un mento.
In questa brusca transizione, o piuttosto discesa, riguardo al carattere, dalle regioni superiori a quelle inferiori della faccia, si notava un’analogia tra la faccia stessa e il corpo nel complesso, della cui peculiare costruzione ho già parlato prima. Il risultato dell’intera conformazione era che le opinioni in conflitto aperto erano di norma impersonate nell’aspetto personale di Hermann. Eretto, era assolutamente ripugnante, e sembrava quello che era, uno sciocco. A tavola, con le mani che coprivano la parte inferiore del volto (un atteggiamento di profonda meditazione che lui spesso affettava), giuro, non ho mai assistito a un tableau più impressionante di quello che il suo aspetto generale presentava. Come duellante aveva acquistato una grande reputazione, anche a G…n. Non ricordo il numero esatto delle vittime cadute per mano sua – ma erano molte. Era un uomo dal coraggio innegabile. Ma più in particolare lui s’inorgogliva per la sua minuta conoscenza dell’etichetta del duello, e per la squisitezza del suo senso d’onore. Queste cose erano una passione per la quale avrebbe dato la vita.
A Ritzner, con il suo sesto senso per il grottesco, le sue peculiarità, fisiche e mentali, già da molto tempo avevano dato spago alle sue mistificazioni. Comunque, di questo non ero consapevole, sebbene in quel momento preciso vidi con chiarezza che il mio amico aveva pronto qualcosa di stravagante e che Hermann era l’obiettivo nel suo nel mirino.
Mentre il primo continuava il suo discorso, o meglio monologo, mi accorsi che l’eccitazione di Hermann andava aumentando. Infine anche lui parlò, offrendo alcune obiezioni a un punto su cui R. insisteva, e dettagliando le sue ragioni.
A queste il Barone replicò a lungo (sempre mantenendo il suo eccessivo tono appassionato), e in conclusione, secondo me con molto cattivo gusto, con un ghigno sarcastico. L’animosità a questo punto prese il sopravvento su Herrman. Questo lo posso dedurre dalla studiata farraginosità della sua replica, tesa a spaccare il capello. Ricordo distintamente le sue ultime parole: “Le vostre opinioni, permettetemi di dirlo Barone Von Jung, sebbene corrette nell’insieme, in molti punti precisi, gettano il discredito su di voi e sull’Università di cui fate parte. In alcuni casi sono perfino indegne di una seria confutazione. Vorrei dire di più, signore, che se non fosse per la paura di recarvi offesa,” (qui l’interlocutore sorrise debolmente) “vorrei dire, signore, che le vostre opinioni non sono le opinioni che ci si aspetta da un gentiluomo.”
Quando Hermann completò questa sentenza equivoca, tutti gli occhi si volsero verso il Barone. Il quale divenne molto pallido, poi fin troppo rosso, lasciò cadere il suo fazzoletto, si piegò per raccoglierlo, e allora colsi sul suo viso un lampo che nessun altro seduto alla tavola avrebbe potuto vedere. Era raggiante, con l’espressione beffarda tipica della sua natura, che non gli avevo mai visto assumere se non quando eravamo noi due soli, quando si scatenava liberamente.
Un istante dopo si alzò in piedi, esibendo un cambiamento di espressione quale io non gli avevo mai visto in un così breve lasso di tempo. Per un attimo immaginai perfino d’essermi sbagliato e che egli fosse in collera davvero. Restò in silenzio, come se si sforzasse di mantenere il controllo.
Quando dopo un po’ sembrò esserci riuscito, raggiunse una caraffa che si trovava vicina, e disse, tenendola saldamente in mano: “Il linguaggio che voi avete ritenuto consono rivolgendovi a me, Mynheer Hermann, è discutibile in ogni particolare e non ho né la pazienza né il tempo di replicare. Dire, che le mie opinioni non siano degne di un gentiluomo è un’osservazione così apertamente offensiva da permettermi una sola linea di condotta. Ciononostante, una certa cortesia mi è dovuta alla presenza di questa compagnia, e al momento anche a voi, come mio ospite. Ciò considerato quindi, mi perdonerete se devio un po’ da ciò che è consuetudine fra gentiluomini in simili casi di affronto personale. Perdonerete il lieve sforzo che io imporrò alla vostra immaginazione, e vi sforzerete di considerare, per un istante, il riflesso della vostra persona nello specchio laggiù come Mynheer Hermann in persona. Ciò fatto, non ci sarà difficoltà di sorta. Io rovescerò il vino di questa caraffa sulla vostra immagine in quello specchio, e ciò soddisferà lo spirito, se non proprio la lettera, del malanimo causato dal vostro insulto, mentre l’esigenza di una violenza fisica sulla vostra persona sarà superata.”
Con queste parole, furiosamente gettò la caraffa piena di vino contro lo specchio, che si trovava proprio di fronte a Hermann, colpendo il riflesso della sua persona con grande precisione, e ovviamente mandando lo specchio in frantumi. All’istante l’intera compagnia scattò in piedi e, tranne me e Ritzner, tutti presero i loro cappelli allontanandosi.
A questo punto Hermann mi sussurrò di seguirlo e offrirgli i miei servigi. Acconsentii, non sapendo con esattezza in cosa consistesse tale ridicolo incarico. Il grande duellante accettò il mio aiuto con la sua solita stizza e la sua aria ultra-recherchée, e prendendomi per un braccio mi condusse al suo appartamento.
Facevo fatica a non ridergli in faccia, mentre continuava a discutere con la più profonda serietà di ciò che definiva “il carattere raffinatamente peculiare” dell’insulto che aveva ricevuto. Dopo una lunga arringa nel suo solito stile, prese dalla sua libreria un volume in ottavo piuttosto spesso, scritto in latino maccheronico da un francese di nome Hedelin, che recava il pittoresco titolo Duelli Lex scripta, et non, aliterque. Da questo lesse uno dei più buffi capitoli al mondo, riguardo Injurie per applicationem, per constructionem, et per se, quasi metà del quale era strettamente applicabile al nostro “raffinatamente peculiare” caso, sebbene io non riuscissi a capirci un’acca.
Dopo aver finito il capitolo, chiuse il libro e mi domandò che cosa ritenessi necessario fare. Risposi che avevo piena fiducia nella superiore delicatezza del suo sentire, e mi sarei conformato a qualunque sua proposta. Sembrò lusingato da questa risposta, e si sedette per scrivere un biglietto al Barone, che diceva così:
Signore,
Il mio amico, il Signor P…, vi consegnerà questo biglietto. Trovo che spetti a me il richiedere, con il vostro sollecito beneplacito, una spiegazione dei fatti occorsi questa sera nei vostri appartamenti. Nel caso in cui voi non aderiste alla mia richiesta, il signor P… sarà lieto di predisporre, con qualsivoglia amico vogliate incaricare, i passi preliminari a un incontro.
Con i sensi del massimo rispetto.
Il vostro umile servitore,
JOHANN HERMANN
Al Barone Ritzner Von Jung,
18 agosto 18…”
Non sapendo che cosa fosse meglio fare, portai la missiva a Ritzner. Il quale si inchinò quando gliela presentai, e, con espressione grave, mi indicò una sedia. Straordinariamente affermò di essere a conoscenza dei contenuti del biglietto e che, senz’altro, non gli serviva di esaminarlo. Poi, con mio grande stupore, ripeté la missiva quasi parola per parola, porgendomi allo stesso tempo una risposta già scritta. La quale, così come segue, la portai a Hermann.
“Signore,
Tramite il nostro comune amico, il signor P…, ho ricevuto il vostro biglietto questa sera. Dopo un’attenta riflessione ammetto francamente la correttezza della spiegazione che suggerite. Ciò premesso, provo ancora una grossa difficoltà (dovuta alla raffinatamente peculiare natura del nostro disaccordo, e del personale affronto recato contro di me) nel trovare le parole per esprimere le mie scuse, come per venire incontro a tutte le minute esigenze, e, a dirla tutta, le varie sfumature del caso. Ho molta fiducia, però, nell’estrema delicatezza di discernimento in queste materie appartenenti alle regole dell’etichetta, per le quali vi si è sempre tanto eminentemente distinto. Con assoluta certezza, pertanto, di essere compreso, chiedo licenza di riferirvi, invece di esternarvi un mio personale sentimento, le opinioni di Sieur Hedelin, come menzionate nel nono paragrafo del capitolo su Injuriae per applicationem, per constructionem, et per se nel suo Duelli Lex scripta, et non, aliterque. La squisitezza del vostro discernimento in tutte le questioni qui trattate sarà sufficiente, ne sono certo, a convincervi che la semplice circostanza che io vi rimandi a questo mirabile brano dovrebbe soddisfare la vostra richiesta di una spiegazione, come uomo d’onore.
Con i sensi di profondo rispetto,
Il vostro ubbidientissimo servo,
VON JUNG
A Herr Johann Hermann,
18 agosto 18..”
Quando fui di fronte a Hermann, egli cominciò la lettura di questa missiva con un cipiglio che comunque si trasformò in un sorriso dettato dal più ridicolo auto-compiacimento, quando arrivò alla tiritera su Injuriae per applicationem, per constructionem, et per se. Dopo aver finito di leggere, con la più accomodante delle arie, mi chiese di sedermi mentre consultava il trattato in questione. Arrivato al passaggio in questione, lo lesse con grande attenzione, poi chiuse il libro, e chiese che io, in virtù della mia profonda conoscenza, di esprimere al Barone Von Jung la sua esaltata ammirazione per il suo cavalleresco comportamento, e, in qualità di secondo, di rassicurarlo che la spiegazione offerta era la più piena, la più onorevole, e la più inequivocabilmente soddisfacente che fosse possibile.
Un po’ stupito da tutto questo, feci ritorno dal Barone. Sembrò ricevere l’amichevole lettera di Hermann come un dato di fatto, e, dopo qualche chiacchiericcio, andò in una stanza interna e ne portò fuori il sempiterno trattato Duelli Lex scripta, et non, aliterque. Mi passò il volume e mi chiese di esaminarne una parte. Lo feci, ma con scarso risultato, non essendo capace di trarne la più piccola particella di senso logico.
Allora prese lui il libro, e mi lesse un capitolo a voce alta. Con mia sorpresa, ciò che lesse si rivelò l’orrendamente assurdo resoconto di un duello fra due babbuini.
Fu allora che il mio amico spiegò il mistero, dicendo che il volume, come apparve prima facie, fu scritto secondo lo schema dei versi senza senso di Du Bartas; vale a dire che il linguaggio era ingegnosamente elaborato in modo tale da presentare a orecchio tutti i segni della comprensibilità, e anche di una profonda analisi, mentre in realtà non c’era una sola ombra di significato, se non in frasi isolate. La chiave di tutto consisteva nell’eliminare in alternanza ogni seconda e terza parola, e così compariva una serie di spassose buffonerie sul duello.
In seguito, il Barone m’informò che a bella posta aveva gettato il trattato nelle mani di Hermann 2 o 3 settimane prima di quella vicenda, e che aveva capito con soddisfazione, dal generale tenore della sua conversazione, che egli l’aveva studiato con la più profonda attenzione, e che riteneva fermamente un lavoro di importanza eccezionale. Su questa base aveva agito. Hermann sarebbe morto mille volte, piuttosto che riconoscere la sua incapacità di capire ogni e qualsiasi cosa che fosse mai stata scritta intorno al duello.
NOTA DEL TRADUTTORE:
Von Jung, the Mystific è la prima stesura del racconto di Edgar Allan Poe Mystification (titolo italiano: Mistificazione), che ebbe la sua stesura finale nel 1845.
Mario Luca Moretti
Altri interessi oltre al cinema e alla letteratura SF, sono il cinema e la la letteratura tout-court, la musica e la storia. È laureato in Lingue (inglese e tedesco) e lavora presso l'aeroporto di Linate. Abita in provincia di Milano