SOUVENIR
Arrivarono in paese verso l’ora di cena. Intorno all’unica piccola piazza una realtà da presepe: poche case scrostate coperte di piante rampicanti, una fontana, una panchina, un unico lampione acceso nel buio. Una campana suonò qualche rintocco e Ilaria guardò l’orologio: le 20.00. Erano in ritardo. La richiesta di check-in era per le 18.
Din-don, din-don. In quel deserto di vecchie pietre il suono solitario della campana aveva qualcosa di lugubre. Ilaria si strofinò le braccia per cacciare via un brivido, un attimo dopo il lampione al centro della spianata si spense e tutto piombò in una irreale oscurità. «E adesso?» domandò disagio guardando il marito.
Marco alzò le spalle. «Non avranno pagato la bolletta» rispose con un mezzo sorriso, poi corrugò la fronte indicando qualcosa: «per fortuna, siamo arrivati.»
L’insegna della pensione della Locanda dell’Orso era proprio dietro le spalle di Ilaria. I due raggiunsero la porta, suonarono, poi bussarono con insistenza. Niente.
«Ma insomma! Abbiamo una camera prenotata!» Ilaria posò nervosa lo zaino a terra e provò a guardare attraverso le persiane socchiuse dell’unica finestra accanto alla porta. Dentro, nel buio quasi totale, le sembrò di scorgere una sagoma muoversi. «Ehi!» chiamò infilando le labbra nel taglio sul legno. «Siamo Ilaria e Marco Tucci. Ci aspettavate per questo pomeriggio!»
L’ombra dentro la stanza trasalì, dopo pochi istanti la porta venne aperta. «Entrare subito, svelti!». Era un uomo vecchio, senza barba né capelli. Le guance scarlatte di capillari, il naso gonfio e rosso, gli occhi tanto chiari da sembrare privi di colore. «Forza!» continuò lui fissando la piazza.
Marco entrò indeciso, Ilaria, che si era attardata per recuperare lo zaino, si sentì afferrare per una spalla e trascinare all’interno.
«Ora zitti» disse il vecchio tappando la bocca di Ilaria che stava per protestare di nuovo; una mano dura di calli e puzzolente di vino. «È suonata la campana del coprifuoco. È tempo di andare a dormire.»
«Dormire? Ma sono appena le otto. E la cena di oggi?» Marco era sconcertato.
«La cena è alle sei. Posso prepararvi due panini ma niente fuochi accesi fino a domani.»
Ilaria si liberò dalla presa del locandiere e si avvicinò a Marco che già stava imboccando la porta per andarsene. Aveva scelto lei quel piccolo paese sperduto sulle montagne per i pochi giorni di vacanza strappati alla routine e sapeva che non c’era un letto da lì fino a fondo valle. Non era stagione turistica le avevano detto, i paesi lì intorno erano quasi tutti abbandonati, alberghi aperti nemmeno a parlarne. La Locanda dell’Orso era la sola struttura che aveva scovato, e ci era voluta tutta la sua insistenza per riuscire a prenotare, quasi il proprietario non volesse ospiti.
«Due panini andranno bene, grazie. Domani saremo puntuali.» Ilaria prese Marco sotto braccio e gli diede un bacio sulla guancia. «Dai, sarà più divertente.»
«Se va bene a te» le rispose Marco.
Ilaria acconsentì, poi tornò a rivolgersi al proprietario dell’albergo: «La nostra camera?»
«Venite, è di sopra.»
Marco e Ilaria salirono un piano di vecchi gradini scricchiolanti, pareti di legno e teste di trofei da caccia. Il corridoio era buio, la stanza dove li condusse l’uomo, altrettanto, con solo un paralume a un lato del letto rosso di una coperta di lana intrecciata.
«Non aprite le persiane, usate subito il bagno se avete necessità, fra poco stacco il contatore principale. Intanto vedo cosa portarvi da mangiare, la colazione sarà servita alle sette.»
Il vecchio uscì lasciando Marco e Ilaria ancora con gli zaini a tracolla. I due si guardarono e non poterono fare a meno di scoppiare a ridere. «Questo è proprio matto!» sogghignò Ilaria. «Mi sa di sì» le rispose Marco aprendo la sacca e tirando fuori scarponi e maglioni pesanti. Il vecchio tornò con quattro fette di pane, due tipi di formaggio, un fiasco di vino e una torcia: «usate questa per mangiare. Buona notte.»
Di nuovo soli, Ilaria e Marco continuarono a disfare i bagagli; dopo nemmeno cinque minuti si sentì un forte scoppio e la luce dell’abat-jour si spense. «Assurdo» commentò Ilaria accendendo la torcia e prendendo la carta dei percorsi.
Si passarono la fiaschetta e il piatto finché non furono vuoti decidendo per una passeggiata morbida, tanto per riprendere il ritmo. Poi sentirono entrambi un gran sonno, un senso di abbandono che partiva dalla base del collo e scaldava muscoli e pelle. Si lasciarono andare sulla coperta rossa, si addormentarono ancora vestiti. Nel buio del profondo torpore parve a entrambi udire degli strani squittii, colpi attutiti al legno degli scuri, il guaire di un cane, forse un grido.
All’alba tutto era silenzio, dalle fessure della finestra entrava un tenue chiarore e dalle scale saliva un profumo di cose buone.
Scesero. Il vecchio sembrava un altro con la luce del giorno. Si chiamava Claudio, viveva lì da sempre e a parte l’anno di leva non aveva mai lasciato il paese. La pensione era stata un’idea della moglie ormai dipartita per arrotondare le entrate sfruttando un paio di camere della grande casa ricevuta in eredità. Prima di quello Claudio era stato il macellaio del paese, ma la sua attività, come tutte le altre, era chiusa da anni. Per hobby ancora cacciava nei boschi e serviva ai clienti i tagli migliori di cervi e caprioli. Ma quella, come aveva tenuto a precisare ancora, non era stagione: non per la caccia, non per passeggiare su quel lato della montagna.
«Il paese è morto. Siamo solo in due ormai oltre al parroco, io e Teresa, ma ve ne accorgerete da voi.»
Ilaria e Marco si alzarono. Presero i due cestini per il pranzo, li misero nello zaino e si misero in marcia. La camminata fu piacevole, il dislivello non era eccessivo e le gambe intorpidite da mesi sotto la scrivania, ritrovarono presto il piacere di passi liberi sul morbido di erba e foglie di sottobosco.
Al paese tornarono che non erano ancora le cinque e facendo un giro intorno alla piazza non poterono fare a meno di trovare l’unico esercizio aperto. Una sola vetrina con esposto alla rinfusa un po’ di tutto: conserve di pomodoro, sigarette, batterie. Un ripiano invece era interamente dedicato a una colorata esposizione di piccoli orsi di peluche. Ce ne erano di seduti, in piedi, vestiti di trine, con cappelli a righe, maglioncini azzurri, abiti da bambina. Uno brandiva un battipanni in miniatura, mentre davanti a tutti un esemplare di orso polare sfoggiava il suo pelo candido e un nastro di raso rosso intorno al collo.
«Che belli!» disse Ilaria avvicinandosi, «pensa quanto sarebbe felice Laura se gliene riportassimo uno.»
Soddisfatta del souvenir trovato per la nipote in un posto dimenticato dal mondo, Ilaria entrò a chiedere il prezzo.
«Non sono in vendita» rispose secca una donna: capelli corti tinti di nero, rossetto acceso e ombretto azzurro sulle palpebre cadenti.
«Ma come?»
«Sono i miei orsi. Serviva altro?»
«No, ne avrei preso uno per ricordo, per mia nipote.»
La donna non rispose, scese invece dallo sgabello su cui era seduta e si avviò alla porta. «Ora scusate ma sono le cinque passate e io devo chiudere.»
Ilaria e Marco si trovarono di nuovo nella piccola piazza davanti alla saracinesca abbassata. «Questi stanno veramente fuori» disse Marco. «Ma come campano se trattano così gli unici ospiti da sa solo dio quando?»
«Già, però mi dispiace, erano belli quegli orsi, uno lo avrei volentieri portato a casa.»
Tornarono in pensione subito dopo, si fecero una doccia e scesero puntuali per la cena. In tavola il solito rosso della casa a bagnare zuppa di legumi e stufato. Ilaria e Marco mangiarono di gusto vuotando i bicchieri, mentre Claudio li informava che Teresa quegli orsi li considerava quasi dei figli e se li portava sempre dietro. Poi di colpo arrivò una grande stanchezza. Ilaria e Marco si alzarono a fatica, salirono in camera, si stesero e si addormentarono di sasso come la sera prima. E di nuovo arrivarono quegli strani gridolini, grugniti, spasmi, soffi rabbiosi. Ma erano solo sensazioni confuse, ricordi annebbiati dal sonno che sparivano con il sole del primo mattino. Niente di più di un brutto sogno.
Al mattino a Ilaria girava la testa e faceva male lo stomaco. I due decisero per una passeggiata di poche ore tanto per non sprecare il penultimo giorno fuori città e poi tornarono in stanza e si misero a letto. «La cena la mangeremo in camera» aveva detto Marco al proprietario e lui, puntuale come sempre, alle 18 aveva portato due piatti di pasticcio di carne e patate e la solita fiasca di vino.
Marco cenò con grande appetito, Ilaria invece non toccò niente sperando di aiutare così lo stomaco a rimettersi a posto. «Apro un po’ la finestra ti dispiace?» aveva chiesto al marito. «Faccio io, tu resta distesa.» Marco si alzò, spalancò vetri e scuri e si rimise a letto. Dopo pochi istanti russava e Ilaria con la torcia accesa prese il romanzo messo sul comodino il primo giorno e cominciò a leggere.
Forse passò un’ora, forse due e anche lei si addormentò. Quando riaprì gli occhi le sembrò di udire dei lievi rumori, qualche colpo attutito, come di un cuscino che cade a terra. Un trascinare leggero. Poi nulla. Incerta Ilaria si sollevò allungando lo sguardo sul nero che veniva da fuori insieme al freddo della notte di montagna, si stese sul corpo di Marco, agganciò la maniglia della finestra e chiuse. Quindi si sdraiò di nuovo, senza riuscire però a prendere sonno. Qualcosa la turbava. Un frusciare nascosto dal respiro profondo di Marco, che però c’era. L’assurda sensazione di una presenza, di essere osservata. Si girò e rigirò sotto la coperta, poi tese la mano prese la torcia dal comodino e la puntò nel buio. Corrugò la fronte, si mise seduta sul letto, sorrise quasi fosse tornata bambina. Erano lì, tutti. Gli orsetti di peluche della vetrina di Teresa. Uno accanto all’atro, con i loro vestitini stirati, i cappellini in testa, i fiocchi al collo.
«Marco!» Ilaria toccò la spalla del marito. «Ma come hai fatto?»
Marco mugugnò qualcosa nel sonno, Ilaria gli diede un bacio senza svegliarlo e si avvicinò puntando la luce. Erano bellissimi. Perfetti nelle loro cuciture, nei dettagli di abiti e musi. Sua nipote sarebbe impazzita di gioia e di certo qualcuno avrebbe trovato posto anche a casa loro.
Ilaria prese uno dei pupazzi, un peluche di trenta centimetri con un maglioncino azzurro e bottoncini di perle; il pelo era morbido, caldo. Tornò sul letto, posò la torcia e cominciò ad accarezzarlo. Aveva un muso delizioso, degli occhi scintillanti che sembravano guardarla davvero. «Sei molto carino» sussurrò sorridendo, «ti piacerebbe partire insieme a noi? Ho una nipotina che renderesti felice.»
Un grugnito ruppe il silenzio. Un suono sordo, un brontolio strozzato. Ilaria posò il pupazzo sulla coperta, prese la torcia, illuminò i piedi del letto. Non c’era niente. Si alzò, fece qualche passo nella stanza. Un animale? Poteva essere entrato mentre dormiva?
Un movimento leggero la fece trasalire. Ilaria puntò la luce in mezzo al mucchio di pupazzi e spalancò gli occhi crollando a sedere. Qualcosa si sollevava, si faceva largo sparpagliando i pupazzi a terra. Era l’orso più grande, si era messo su due zampe e cauto annusava l’aria della stanza: bianco con un nastro rosso intorno al collo. Il pupazzo intanto si spostava in avanti, gli occhi accecati dalla luce brillavano di una strana fluorescenza e dalla bocca cucita da cui spuntavano piccoli denti acuminati, tirava fuori un verso orribile.
Ilaria guardava incredula: da terra altri orsi cominciavano a muoversi, ad alzarsi, a camminare ovunque. Sentì qualcosa toccarle la gamba, puntò la luce che le tremava nella mano. Il piccolo orsetto dal maglioncino azzurro l’aveva raggiunta e adesso teneva spalancata la bocca mostrando le zanne e soffiando un sibilo sinistro. Ilaria urlò, afferrò il pupazzo per una zampa e lo scagliò lontano insieme alla torcia, poi si rifugiò sul letto raggiungendo il corpo del marito.
«Marco! Svegliati!»
Marco russava. Ilaria cominciò a scuoterlo, a prenderlo a schiaffi. «Marco! Santo dio svegliati!»
Gli squittii intanto si erano fatti più intensi e vicini. Ilaria tornò a fissare il buio. Non riusciva a vedere niente oltre il rosso della coperta di lana, ma poteva sentirli.
«Andate via…» farfugliò continuando a strattonare il marito. «Via! Via!»
Ma le bestie venivano avanti, già si arrampicavano sul letto, sguainavano artigli da sotto il morbido pelo, aprivano le piccole fauci, latravano, sbavavano.
Ilaria urlò ancora. Con un gesto disperato sollevò la coperta lanciandola lontano. Mise un piede fiori da letto, si lanciò per raggiungere la maniglia della porta. Il morso le arrivò alle spalle, un fascio di spine che entrava, lacerava e strappava. Poi una nuova fitta tremenda al polpaccio.
Ilaria abbassò la mano. Il pupazzo che l’aveva aggredita era ancora attaccato alla gamba, brandiva un piccolo battipanni che faceva roteare in aria. Lo strappò via, lo scagliò lontano e continuò ad arrancare verso dove ricordava essere la porta. Altri morsi arrivarono, altri graffi, ovunque.
La porta si spalancò, un potente fascio di luce illuminò a giorno la stanza e Claudio, il viso congesto, un fucile da caccia stretto tra le mani, entrò cominciando a sparare.
Si fece spazio così fino al letto, colpendo gli orsi che dal corpo di Ilaria tentavano di attaccarsi al suo, raggiunse la finestra, spalancò le imposte.
Le bestie allora cominciarono a saltare fuori, i corpi aperti da cui fuoriuscivano ciuffi di imbottitura, una dopo l’altra si staccavano dalla carne e sparivano nel buio oltre la casa, ringhiando, guaiendo.
Solo lui, il bianco, era rimasto concentrato sulla preda, la testa premuta sul collo dove aveva inferto una profonda ferita.
«Vattene!» gli urlò Claudio. «Hai mangiato abbastanza.»
L’orso lo fissò senza paura, scoprendo le zanne e grugnendo forte.
«Vattene!» ripeté fermo Claudio puntandogli contro il fucile. La bestia allora fece un passo indietro, spiccò un salto arrivando sul letto e sparì come gli altri.
Claudio si affrettò a richiudere imposte e vetri, fece una perlustrazione veloce: sotto il letto, la poltrona, la sedia, per essere certo che non ne fosse rimasto nessuno, poi, posando il fucile, si accovacciò su quanto restava di Ilaria. La donna era morta. Claudio sospirò, si rimise in piedi e controllò il marito: dormiva. Sul comodino i resti della cena e del fiasco di vino. Claudio prese il vassoio, quando tornò aveva due grosse buste di plastica. In una infilò il corpo di Ilaria e tutte le sue cose, nell’altra la coperta e quanto era stato macchiato di sangue. Mise il primo sacco nel bagagliaio del furgone, l’altro lo bruciò.
Al mattino Marco si svegliò con un profondo senso di nausea. Lo stesso, pensò, che aveva disturbato Ilaria il giorno precedente. Si girò per salutare la moglie ma rimase stupito di non trovarla nel letto. Scese in cucina, immaginandola a fare colazione, la sera prima non aveva mangiato niente. Ma Ilaria non c’era.
«È uscita» lo aveva informato Claudio indaffarato ai fornelli. «Molto presto e con lo zaino in spalla.» Marco sorpreso era tornato in camera, aveva fatto alcune telefonate provando a rintracciarla, a sentire la madre, la sorella, sperando in qualche notizia. Poi aveva preparato i bagagli ed era partito. Due giorni dopo erano cominciate le ricerche in montagna, quattro settimane più tardi i resti di un corpo identificato come quello di Ilaria Tucci, erano stati trovati divorati in un bosco.
© Giorgia Simoncelli, 2019
Copertina © Giorgio Sangiorgi (Edizioni Scudo)
Giorgia Simoncelli
Pubblicista dal 2012. Nel 2016 tra i dieci vincitori del concorso "ioscrittore" del Gruppo Mauri Spagnol e finalista alla terza edizione del Premio Letterario Nazionale Bukowski. Finalista al concorso Odissea, 2018, con l’opera fantasy "Il viaggio di Lea." Ha pubblicato con Delos Digital, Edizioni della Sera, Watson. Sta pubblicando "unminutofantastico," su Instagram, Twitter, Facebook , fantasy da leggere in un minuto