Poe a fumetti: William Wilson
Edgar Allan Poe scrisse William Wilson nel 1839.
Il narratore in prima persona si presenta appunto come William Wilson e afferma di essere in punto di morte, dopo una vita trascorsa in vergognosa dissolutezza. Quindi comincia a raccontare una specie di breve autobiografia, cominciando dalla sua adolescenza trascorsa in un collegio religioso inglese.
Qui la sua natura ribalda e autoritaria si manifestò fin da subito, permettendogli di imporsi su tutti i suoi compagni, ma con una sola eccezione, un altro William Wilson, nato come lui il 18 gennaio 1813, e talmente somigliante da essere scambiato come suo fratello gemello.
Questo secondo Wilson non solo è l’unico a ribellarsi alla sua autorità, ma sembra allo stesso tempo imitare e ribaltare gli atteggiamenti del primo, suscitando in lui un forte senso di rivalità.
Nella prima parte, Poe inserì molti elementi autobiografici, avendo anche lui passato la prima giovinezza in un collegio inglese.
Lasciato il collegio, Wilson si iscrive all’Università di Oxford, ma continua la sua vita disonesta, alla guida di un gruppo di giovani compagni.
Una sera, durante una partita a carte che lo vede trionfare su un nobile tedesco sempre più dilapidato, arriva un giovane vestito come lui e a lui somigliante: è il suo omonimo rivale, che lo smaschera come baro.
William Wilson da allora gira il mondo, sempre impegnandosi in qualche malsana impresa, ma ogni volta l’altro Wilson lo raggiunge e vanifica i suoi piani. A Roma, durante una festa carnevalizia in maschera presso un nobile napoletano, Wilson è ancora una volta raggiunto e intralciato dal suo eterno rivale, mentre corteggia la moglie del nobile.
Esasperato, Wilson lo sfida a duello e lo trafigge. In punto di morte, il suo sosia gli rivela che uccidendolo ha in realtà ucciso se stesso.
Nato a Barcellona nel 1946, lo spagnolo Alfonso Font è un disegnatore e sceneggiatore famoso anche in Italia per le sue serie di fantascienza, fra cui Storie di un futuro imperfetto, Clarke & Kubrick Spazialisti Ltd., Alice e gli Argonauti.
Negli anni ’70 e ’80 lavorò saltuariamente per il mercato americano, realizzando diverse storie horror, fra cui alcuni adattamenti di racconti di Poe. Il numero della rivista Nightmare del giugno 1974 pubblicò la sua versione di William Wilson.
Font riserva alle prime due pagine la giovinezza di Wilson, e riporta il testo di Poe con fedeltà nelle didascalie, ma aggiungendo alcuni episodi che rappresentano il giovane William Wilson come un bullo piuttosto che un leader carismatico.
C’è persino un tentativo d’assassinio da parte del malvagio Wilson verso il suo alter-ego.
Nella seconda parte Font segue, sia pur per sommi capi, lo schema del racconto.
La maturità di Wilson è così raccontata soffermandosi sui due episodi salienti – la partita a carte e la festa in maschera – e descrive con spicce ma efficaci vignette il girovagare e la degradazione di Wilson, e i relativi contrasti con il suo omonimo.
In una vignetta si accenna anche a una dipendenza di Wilson dall’oppio: un particolare assente nel testo originale, ma forse un tentativo di Font d’insistere sul confronto con la vera vita di Poe.
Il racconto si conclude con il monologo dell’alter-ego che annuncia a Wilson che entrambi stanno per morire. Font invece conclude la sua versione con un monologo del protagonista che si rende conto di aver ucciso la propria coscienza.
Font disegna la vicenda con un contrastato e intenso bianco e nero, tipico del suo stile, e nelle sue 8 pagine gioca sulla concisione, sintetizzando gli episodi secondari in vignette singole, ma ricche di dettagli che riescono a rendere sia lo svolgere degli anni che l’ossessione che lega i due sosia.
Nel rappresentare i personaggi è forse un po’ troppo superficiale, e non sempre riesce a dare loro la necessaria caratterizzazione e profondità psicologica: sotto questo aspetto non è certo uno dei migliori lavori dell’artista spagnolo.
Il numero di ottobre 1979 del mensile argentino El péndulo pubblicò William Wilson, scritto da Guillermo Saccomanno e disegnato da Alberto Breccia.
Questa versione in pratica prende dal racconto solo l’episodio del carnevale, a sua volta però ampiamente – e personalmente – rielaborato dagli autori.
Poco o nulla si sa del passato dei due William Wilson, mentre vediamo il protagonista che vaga per una città senza nome alla ricerca del suo omonimo ripetendo che lo vuole uccidere.
In questo monologo ci sono alcuni brani presi di peso dal racconto, però già assistiamo a più di un ribaltamento rispetto al testo.
Nel racconto infatti Wilson passa la vita cercando di fuggire dal suo sosia, e la sua uccisione non è premeditata ma nasce da un impeto di esasperazione.
La città, benché non nominata, è facilmente riconoscibile come la Buenos Aires degli anni ’30, da vari particolari: già dalla prime vignette, Wilson ascolta da una vecchia radio una canzone di Carlos Gardel, noto cantante e autore di tanghi dei primi decenni del ‘900; su un muro compare la scritta “P.S.P. G. Giacobini consejal” (Genaro Giacobini fu un uomo politico argentino, consigliere comunale a Buenos Aires fra il 1932 e il 1936); in una vignetta si vede una famiglia al di fuori da una casupola, e fra i suoi membri c’è un vecchietto che beve del mate, la bevanda tipica argentina; in una sfilata di carnevale si legge lo striscione “Los Dandis de Mataderos“, e Mataderos è il quartiere popolare di Buenos Aires dove Alberto Breccia passò la sua giovinezza.
Wilson, mascherato con un largo cappello, una cappa e una maschera rossa, vaga in mezzo al carnevale in cerca di una persona travestita come lui, convinto che l’altro Wilson, anche stavolta, lo imiti nell’aspetto come ha sempre fatto.
E in effetti è così, come si vede quando il suo omologo lo raggiunge alle spalle e si presenta. Wilson allora lo sfida a duello, in mezzo a una folla attonita, e lo pugnala.
Moribondo, l’altro Wilson gli ripete il monologo finale del racconto. Entrambi i Wilson muoiono, e nell’ultima vignetta, in una casa con la foto di Gardel appesa al muro, una radio manda gli ultimi versi della sua canzone.
I disegni di Breccia spingono lo sperimentalismo di Il cuore rivelatore ancora più in là.
Al bianco e nero “geometrico” si sostituiscono dei colori a china ora tenui, ora brillanti, ma sempre influenzati dall’espressionismo tedesco. Ogni naturalismo è rifiutato.
I corpi e i visi hanno forme grottesche, prive talvolta persino di proporzione. Le maschere dei partecipanti alla sfilata appaiono sorridenti e allegre, ma allo stesso tempo deformate e surreali. La lezione espressionista si fa particolarmente evidente in due vignette: in una i volti mascherati circondano giganteschi il volto, al confronto minuscolo, di Wilson che grida “Dov’è, dannazione…?”, in cerca del suo rivale, nell’altra le maschere, in lacrime, circondano, ancora sproporzionate, i corpi dei duellanti morti.
I giochi dei neri di Il cuore rivelatore in qualche modo ritornano in William Wilson, stavolta nelle forme dei due Wilson, resi dalle loro cappe e cappelli come dei triangoli che fendono e occupano le vignette, contrappuntati ora dalle maschere rosse che coprono i loro volti ì, ora dal bianco cadaverico dei loro visi scoperti, a loro volta simili a digrignanti e angosciosi triangoli.
Saccomanno e Breccia quindi, più che adattare la storia di Poe, da una parte ne fanno un omaggio citandone alcuni brani alla lettera, dall’altra la usano come pretesto per denunciare la repressione della giunta militare che aveva preso il potere in Argentina nel 1976, sia pur in termini sottintesi e quasi subliminali.
La giunta infatti proibì i festeggiamenti del carnevale, e l’aver ambientato la vicenda in una Buenos Aires “carnevalesca”, allo stesso tempo funerea e vitalistica, finisce con l’assumere il sapore di una provocazione, e lo slogan elettorale a favore di Giacobini (esponente di un partito radicale, il P.S.P. appunto) rimanda a un’epoca in cui si svolgevano libere elezioni.
Nella vignetta finale la foto di Gardel appare listata a lutto. Il musicista morì nel 1935, e questa è un’altra indicazione temporale, ma la sua morte può essere interpretata come un simbolo dei lutti che colpivano l’Argentina alla fine degli anni ’70: il tango è l’espressione artistica argentina per eccellenza, e la morte di Gardel diventa il simbolo di un’intera nazione messa letteralmente a lutto da una repressione politica sanguinaria.
Per Breccia, poi, la scelta del quartiere Mataderos ha senz’altro un valore personale, un omaggio ai luoghi della sua infanzia, che fu povera, ma ugualmente ricca di stimoli e ispirazioni che più volte ritornarono nella sua carriera artistica.
Mario Luca Moretti
Altri interessi oltre al cinema e alla letteratura SF, sono il cinema e la la letteratura tout-court, la musica e la storia. È laureato in Lingue (inglese e tedesco) e lavora presso l'aeroporto di Linate. Abita in provincia di Milano