L’ultimo misero uomo
Kaspar era un valente alchimista, eppure la pietra filosofale non lo interessava affatto. Lui, ossessionato forse dalla prematura morte dei suoi genitori, desiderava essere immortale. E a questo lavorava con passione alacre ogni momento della sua vita, a questo pensava in continuazione.
Tra le tante sue fortune, divenne allievo di Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Paracelso. Costui gli insegnò che i quattro elementi della tradizione alchemica: Acqua, Fuoco, Terra e Aria, componenti di tutta la realtà, altro non erano che forme derivate da un’unica sostanza primigenia, comune a ognuno di essi, che egli chiamava alkaest. La ricercarono insieme, pensando che avrebbe potuto essere la pietra filosofale, la medicina universale e il solvente miracoloso.
In effetti ottennero una sostanza che poteva allungare di molto la vita umana, ciò nondimeno Paracelso, a un certo punto, si rifiutò di utilizzarla, sicché alla fine Kaspar rimase solo nella ricerca di qualcosa che stabilizzasse il suo preparato; il quale prima o poi non avrebbe potuto fermare una decomposizione fisica che era stata solamente rimandata.
Due secoli dopo, continuò il suo lavoro con Nicolas Flamel, il quale si prese tutta la fama di aver scoperto l’elisir di giovinezza. Un risultato che lo accontentò e che causò la frattura tra i due. Flamel tuttavia morì, perché non conosceva un ingrediente segreto della pozione, che Kaspar si era ben guardato dal rivelargli. Il suo ex-collega visse molto, ma non quanto lui.
Ci riprovò anche con altri, come François-Annibal d’Estrées, o con il conte di Saint-Germain, e persino con Alessandro Cagliostro, ma alla fine preferì restare solo in quella titanica ricerca, perché dopo tutto quel tempo non si fidava più di nessuno.
Con la fine dell’ottocento, Kaspar godeva di un’invidiabile posizione e alloggiava in una casa signorile di Marne-la-Coquette, a ovest di Parigi, non troppo distante da Versailles. Lì, aveva installato un laboratorio attrezzato col meglio della tecnologia disponibile a quell’epoca.
Non furono tuttavia i saggi scientifici di quegli albori, ancora rudimentali, a fargli venire la sua brillante idea, ma un romanzo letto per passatempo: il Frankenstein di Mary Shelley. L’idea delle romanziera, ovviamente, era irrealizzabile per chiunque, ma non per lui che aveva accumulato il meglio delle conoscenze esoteriche del suo continente e che ora si apprestava a penetrare nei domini della scienza.
Verso il millenovecentotrenta, abbandonata ogni velleità di stabilizzare la sua pozione, cominciò finalmente a comprendere come avrebbe potuto realmente costruirsi un nuovo corpo virtualmente immortale e, soprattutto, come avrebbe potuto trasferirvi la sua coscienza.
Ad aiutarlo in quell’impresa c’era Octave, un bravo e fedele domestico con svariati compiti, che ogni mattina si recava alla villa e si occupava di tutto ciò che il suo padrone non voleva come impiccio.
La notte no, Octave se ne tornava a casa sua, da una moglie piuttosto bruttina. Di notte, infatti, Kaspar voleva muoversi, indisturbato, nella più completa segretezza. E questo perché per il suo progetto non poteva semplicemente acquistare cadaveri al mercato nero, ma doveva procurarsi dei soggetti vivi e mantenerli tali fino a quando non avesse avuto tutto l’occorrente per la sua realizzazione.
E non solo ne aveva bisogno per motivi tecnici, quanto, soprattutto, per motivi estetici. Dovendo stare in un corpo per tutta l’eternità, voleva che esso fosse la quintessenza della bellezza. A questo scopo sceglieva le sue prede con attenzione, per la semplice caratteristica di un polso ben rifinito, o di un padiglione auricolare che ispirava nobiltà. E la sua sete di bellezza era tale che, alle volte, le sue prede erano persino delle donne.
Catturato l’oggetto dei suoi desideri, in mille pazienti modi diversi, riusciva poi a metterlo in una sorta di stato di quiete di sua invenzione, ove quel corpo incosciente avrebbe potuto conservarsi vivo e intatto anche per anni. Ci vollero cinquecento giorni, infatti, prima che Kaspar avesse raccolto tutte le sue prede, poveri sventurati di varia estrazione sociale, che la polizia non riuscì mai rintracciare e che furono alla fine dati per dispersi.
Ma come biasimare quei tutori dell’ordine? Ciò che lui stava per fare era talmente lontano da ogni possibile immaginazione di chiunque, che essi non avevano speranza alcuna di poterne intuire le mire.
Una notte di dicembre, eccezionalmente, a Octave fu chiesto di recarsi alla villa, anziché durante il giorno. Ovviamente, fin dal mattino precedente Kaspar aveva lavorato alla sua creazione con tecniche magico-scientifiche di cui non diremo nulla, per evitare che qualche sciocco sconsiderato decida di mettersi sul suo infausto cammino.
Quando Octave entrò nel laboratorio, rimase interdetto. Su di un grande tavolaccio era disteso, non un mostro malamente rabberciato, ma il più bel giovane che avesse mai veduto. Molto più alto della media di quei tempi, biondo e riccio, con un profilo greco e una muscolatura impressionante seppur aggraziata; era come se un dio stesse dormendo in quello scantinato. Sicuramente Apollo.
Kaspar raccontò al suo servo un mucchio di frottole. Disse che si trattava di un giovane di buona famiglia morto prematuramente, lasciando in lacrime la moglie e una tenera figlioletta. Per questo, durante quella notte ferale, loro due avrebbero cercato di riportarlo in vita, restituendolo all’affetto dei propri cari.
Octave aveva una grande ammirazione per il suo padrone e non dubitò neanche un istante delle sue intenzioni. Anzi, si dichiarò onorato di partecipare a un così nobile tentativo.
Dal canto suo, Kaspar gli mostrò che il cadavere era collegato con due cabine di legno, spiegando che grazie ad esse lui e Octave avrebbero potuto cedere un pochino della loro forza vitale a quello sfortunato. Infatti, un intrico di cavi partiva da esse ed era collegato al corpo esanime con placche di metallo appoggiate in vari punti e tenute lì da fasce di un materiale gommoso.
Il sapiente fece accomodare Octave, rassicurandolo sul fatto che non avrebbe patito disagi, proprio perché a condividere quello sforzo sarebbero stati in due. Mentre se una sola persona avesse tentato, forse si sarebbe danneggiata gravemente. Gli disse anche che, alla fine, si sarebbero sentiti un po’ stanchi; ma niente cui non potesse rimediare una bella dormita e un buon pranzetto.
Dopo aver imbragato con perizia il suo servo a quell’apparecchiatura arcana, andò a sistemarsi nella propria cabina, che era stata predisposta proprio per poter fare la cosa senza aiuti. Stava ancora elogiando Octave per il suo coraggio, quando abbassò una leva che era vicino a lui e il poveretto ci lasciò le penne.
Gli aveva mentito, ovviamente, anche su quello. L’energia vitale per dar vita a quel golem veniva tutta da Octave, la seconda cabina serviva solo a trasferire la coscienza di Kaspar nel suo nuovo ricettacolo.
Ben ventuno persone erano dovute morire perché lui potesse giungere a quel risultato, più forse un paio, che aveva assassinato nei secoli precedenti, per motivi parzialmente correlati a quella ricerca. Ma alla fine, l’alchimista fu premiato di tanto sforzo e si risvegliò forte, sano e bello come un Adone. Ce l’aveva fatta. O almeno credeva, perché solo il tempo lo avrebbe confermato.
Intanto doveva far sparire i resti del suo eccidio, cosa che fece facilmente perché aveva preparato all’uopo una vasca riempita con un potente acido. Un attività faticosa per chiunque, ma che il suo nuovo corpo riuscì a svolgere in assoluta scioltezza, senza neanche farsi venire il fiatone.
La sera del giorno dopo, venne la moglie di Octave con due gendarmi a chiedere notizie del marito. Lui si presentò come il nipote di Kaspar e disse che lo zio e il suo servo erano partiti in fretta e furia, senza dire per dove. Poi, attese qualche giorno e andò a denunciare il fatto che i due non avevano più dato notizie di sé. Accadde, perciò, il paradosso che quel misfatto fu in parte coperto dai suoi misfatti precedenti. Dato che in quel periodo sparivano molte persone, si pensò che Kaspar e Octave avessero fatto la stessa fine, uccisi da banditi di strada in luoghi appartati, si congetturò.
E Kaspar aveva pensato anche a tutto il resto: nuovi documenti, denaro in contante per non dover affrontare difficili passaggi di proprietà, oltre al fatto che non c’era proprio nessun’altro che potesse reclamare, come sue, le proprietà del defunto.
Rimase in quel luogo ancora per un paio d’anni, per non alimentare negli animi strane congetture. Poi disse che il paese era troppo pieno di ricordi, smantellò completamente il suo vecchio laboratorio e infine regalò la villa a un ente benefico che gestiva un orfanotrofio. Invece che lasciare il paesino nel sospetto, sarebbe stato ricordato a lungo come un benefattore.
Parigi lo attendeva con le sue luci e i folli piaceri di Pigalle. Da secoli non provava più interesse sentimentale per le donne, ma il piacere che esse potevano dargli ora lo attraeva più che mai, forse per la grande energia vitale che il suo nuovo corpo sembrava esprimere. Non fece fatica a procurarsene, non solo aveva denaro a profusione, ma la sua bellezza portava le donne a fare follie per lui. Ci furono anche alcuni suicidi, provocati dalla sua insensibilità nei confronti dei cuori spezzati; ma che volete che fosse per lui, un morto più o uno in meno.
Quando nella capitale francese giunsero i nazisti, non ebbe problemi. Ai loro occhi lui era veramente il prototipo dell’uomo ariano e fu veramente una fortuna per tutti che nessuno di loro mai intuisse come quel corpo era stato costruito. Invece continuò nelle sue gozzoviglie, proprio insieme a quegli odiosi gerarchi che, alla fin fine, erano cinici e rapaci quanto lui.
Finita la guerra, tuttavia, anche se nella sostanza non era vero, su di lui circolavano sospetti di collaborazionismo e Kaspar si convinse che la sua vita in Europa era ormai giunta al termine. L’America sarebbe stata la sua nuova patria, perché la ricchezza del mondo ormai si era da tempo trasferita in quel paese lontano e lui, che ricercava il piacere, doveva andare dove c’era il denaro.
La scelta più logica fu, quindi, Las Vegas, dove rimase per decenni.
Nel frattempo, si era convinto che il suo corpo era realmente immortale. Impervio alle malattie, aveva verificato che anche le sue ferite guarivano molto in fretta e rimarginavano completamente. Sapeva di dover stare attento, perché niente avrebbe potuto salvarlo da un efferato assassinio o da un gravissimo incidente. Salvo questo, le sue prospettive di vita erano illimitate.
Non è facile seguire le tracce di ciò che fece nei secoli seguenti. Sicuramente, quando variò il flusso finanziario mondiale, si trasferì a Shangai. Ma quella semplice logica, seguire il piacere-denaro, col tempo, dovette venire sostituita da altro di più difficile comprensione.
Intanto, il mondo attorno a lui cambiava. Gli uomini avviarono un’era di pace senza fine e di riforme, mentre le loro conoscenze scientifiche e tecnologiche aumentavano esponenzialmente. Parallelamente, anche la specie umana iniziò ad avere importanti mutazioni genetiche; prima in sordina, poi sempre più marcate ed evidenti.
Dopo alcuni millenni, l’evoluzione sulla Terra aveva creato dei nuovi esseri di potenza e bellezza incomparabile, mentre l’uomo, in appena un millennio e senza un particolare motivo, si era estinto. Ma non del tutto, c’era ancora un esemplare della vecchia specie che viveva schivo e appartato. Era Kaspar.
Reiteratamente, i nuovi esseri vennero a cercarlo nel suo ritiro sulle montagne, ma lui ogni volta che li vedeva fuggiva, perché il loro splendore lo accecava, perché il loro potere gli straziava il corpo e l’anima. Non riusciva a tollerare la loro presenza.
Non si sa se per sua iniziativa o per decisione collettiva, dato che per quegli esseri divini ogni contraddizione era senza senso, ma un giorno uno di loro fece un grande sacrificio. La sua luce cominciò ad affievolirsi sempre più, fino a divenire poco più che un lieve brillamento sulla sua pelle. Evidentemente affaticato da quello sforzo di diminuirsi, l’essere salì nuovamente la montagna in cerca di quell’ultimo misero uomo e gli si presentò senza che questi provasse i disagi che invece aveva patito prima.
«Ciao Kaspar,» gli disse giovialmente.
«Tu mi conosci?» rispose l’antico alchimista.
«O certo. Ora sono molto diverso,» rispose il nuovo venuto, «ma, se ti concentri ben bene, credo che potrai sentire la mia atmosfera e riconoscermi.»
Kaspar – la cui magnifica bellezza non era sfiorita, ma che di fronte a quel essere, sia pur diminuito, era alquanto deludente – strinse gli occhi fissandolo. Infine sussultò e disse: «Octave?!»
«Bravo, sono proprio io!»
Istintivamente, Kaspar fece un passo indietro.
«Dovrai odiarmi per quello che ti ho fatto…» disse immediatamente, come se quel senso di colpa lo avesse assediato per tutti quei millenni.
Ma l’altro non era dell’avviso: «Per nulla, Kaspar. Se non avessi fatto ciò che hai fatto, se tu avessi vissuto la tua vita di allora nel modo consueto, ora sapresti perfettamente che tutto quello che dici o che pensi del mondo non ha alcun senso. E che io non ho proprio nulla da rimproverarti. Come tutti, ti saresti spostato di vita in vita, lavorando alla creazione di ciò che noi oggi siamo diventati.»
«Non potevo accettare la morte,» si difese Kaspar.
«Ma le cose evolvono in continuazione,» rispose Octave. «Fino a quando il nostro corpo e la nostra coscienza non furono in grado di adattarsi costantemente a questo, l’immortalità non aveva senso. La tua forse ne ha uno?…»
Dopo di ciò, il suo vecchio servitore gli disse che era venuto, a nome di tutti, per chiedergli di abbandonare quella vita assurda per unirsi a loro nella gloria enella meraviglia. Purtroppo, Kaspar aveva investito troppo per quel suo sogno di umana eternità e non lo stette a sentire, e quindi Octave se ne tornò a sfolgorare tutta la sua bellezza.
Nei millenni che seguirono ancora, gli esseri nuovi si occuparono di Kaspar da lontano e gli costruirono intorno un luogo felice dove lui poteva facilmente trovare ciò di cui aveva bisogno. Era una specie di Eden al contrario, dove invece di vivere il primo uomo, abitava l’ultimo.
Solo molto e molto tempo dopo Octave tornò da lui, per dirgli che ormai i giorni della Terra erano finiti, perché persino il Sole stava per morire e rinascere. Se lui avesse rinunciato a quella sua vecchia vita di uomo, avrebbe potuto unirsi a loro che sarebbero partiti alla ricerca di un nuovo pianeta dove vivere. Ma Kaspar rifiutò di nuovo, perché voleva paradossalmente godersi la sua eternità fino al suo ultimo giorno. All’ultimo minuto della Terra.
Neanche questa volta quegli esseri provarono a forzare la sua volontà e svanirono negli spazi.
Kaspar, sereno a modo suo, rimase lì a osservare il sole, che diventava ogni giorno più rosso. Sempre più grande e sempre più rosso.
Tuttavia, lui non vide il grande botto, come si era immaginato. Per quanto il suo corpo fosse robusto e adattabile, quando la temperatura superò i settanta gradi all’ombra, il suo cuore cedette.
© Giorgio Sangiorgi 2020
Giorgio Sangiorgi
Sangiorgi lavora e vive a Bologna. Dopo un esordio nel campo del fumetto, ha vinto alcuni premi letterari locali per poi diventare uno degli autori e dei saggisti della Perseo Libri Il suo libro "La foresta dei sogni perduti" ha avuto un buon successo di pubblico. Ora pubblica quasi esclusivamente in digitale e alcuni suoi racconti sono stati tradotti e pubblicati in Francia e Spagna.