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LIGHT OF MY LIFE: UN’AVVENTURA D’AMORE

LIGHT OF MY LIFE: UN’AVVENTURA D’AMORE

Light of My Life: un’avventura d’amore. La prima parte del titolo (luce della mia vita) è una frase tratta dall’Andromaca, opera teatrale scritta da Euripide, mentre la restante potrebbe essere benissimo la sintesi del film scritto, prodotto, diretto e interpretato da Casey Affleck (fratello minore del più famoso Ben).

Nelle interviste, disponibili su vari siti specializzati, è lo stesso Casey a dichiarare che ha iniziato a pensare alla storia già dieci anni prima, quando i suoi bambini erano ancora piccoli, evidenziando quindi il rapporto tra genitori e figli – in particolare del distacco tra un padre e la figlia femmina –  descrivendone l’amore reciproco. Invece, per quanto riguarda l’avventura, non si può definire tale perché è più pertinente parlare di sopravvivenza.

I due protagonisti, padre e figlia (C. Affleck e la sorprendente Anna Pniowsky), sono costretti a vagare in un mondo semidesertico dopo una sorta di apocalisse dovuta a un virus che ha sterminato quasi tutta la popolazione femminile della Terra e, per questo motivo, il padre deve cercare di difendere la figlia undicenne dalle predazioni degli altri uomini, nascondendone il sesso.

Light of my LifeIl lavoro di C. Affleck, per ovvi motivi, può essere considerata un’opera che contiene in essa quasi una denuncia, nell’epoca del #MeTo, al femminicidio. Nei dialoghi, spesso serrati, si denota un marcato riferimento alla moralità e all’etica e si intravede una flebile luce alla fine del tunnel: sopperire alla mancanza di donne clonando quelle poche rimaste in vita.

Il cinema, in particolare quello di fantascienza, spesso si confronta con storie distopiche, quando cioè per causa propria o per cataclismi naturali, il mondo viene presentato allo stremo. I pochi superstiti sono costretti quindi a vagare, spesso senza meta se non quella di trovare un posto tranquillo ove rifugiarsi, in un mondo spoglio, tetro e dove il vivere quotidiano è intriso di tristezza e malinconia.  Il viaggio, se così si può dire, è una sorta di lenta agonia dove la desolazione, però, non è tanto per il mondo che cade a pezzi ma piuttosto uno stato dell’essere umano: una situazione disperata che colpisce in maniera peggiore di un pugno nello stomaco.

Diversi sono i film più o meno simili, come in The Road (J. Hilcoat, 2009), dove un intenso Viggo Mortensen protegge e prepara il figlio a quando egli non ci sarà più. In I figli degli uomini di A. Cuaròn (2006), film con le atmosfere e un impianto simile, l’umanità si trova invece sull’orlo del baratro perché le donne non possono più procreare.

Light of my life inizia con una lunga sequenza in cui all’interno di una tenda, alla luce fioca di una lampada, il padre racconta le favole della buonanotte alla figlia. L’intento è chiaro, far distrarre la ragazzina dalle pene quotidiane, imbrigliando la mente per cercare di alleviarle il tormento che lentamente affiora nel conscio, mettendo in discussione proprio il rapporto fra padre e figlia: scopriranno che sono femmina, se tu (il padre) morirai, che ne sarà di me?

Quest’ultima locuzione potremmo quasi definirla come una sorta di pessimismo cosmico, dove le sofferenze della ragazzina, che si appresta a entrare nell’età della pubertà, sono le nostre paure ancestrali, quando siamo costretti a pensare al nostro poco roseo futuro. Nei flashback, impostati come in Io sono leggenda (F. Lawrence, 2008), per lo più incentrati sulla moglie poco prima che si ammalasse e morisse, Affleck lo concepisce quasi come una velata richiesta d’aiuto: che ne sarà di me, di noi, riuscirò a proteggere nostra figlia?

A volte penso che se dovesse succedere mai un cataclisma, una catastrofe, qualcosa di apocalittico, sarei in grado di cavarmela? Saprei trovare un posto in cui stare tranquilli, riuscirei a trovare il cibo tra tanta miseria e sarei in grado di proteggere i miei cari? E l’acqua, i medicinali?

Nell’opera di Affleck, seppur a fatica, manca l’azione, immagini statiche ad aumentare la claustrofobia della vita randagia nei boschi, ai margini della città e quindi della civiltà, scivola lenta fino al finale, senza colpi di scena, senza il tripudio di sequenze spettacolari ma con un semplice abbraccio e sono sicuro che, tutti quelli che hanno assistito o assisteranno alla proiezione, non potranno che riflettere su questo gesto di affetto universale.

Giuseppe Nardoianni
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Appassionato di cinema, legato alla fantascienza e all'ufologia;, ha collaborato dal 2000 come recensionista cinematografico, con Stargate, Stargate Magazine, Area 51, XTimes, e il quotidiano Cronache del Mezzogiorno (Salerno), Ha prodotto uno studio su Ufologia e Media per l'enciclopedia multimediale Armando Curcio.

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