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Colony e le anime smarrite

Colony e le anime smarrite

Con Colony, creata da Carlton Cuse e Ryan J. Condal per USA Network, ci troviamo ancora una volta di fronte a uno dei disastri del sistema produttivo televisivo americano, con una serie che muore dopo solo tre stagioni e, ovviamente, sul più bello.

Come molte delle odierne produzioni vediamo una storia che nasce mettendo insieme molte delle esperienze precedenti. Principalmente si tratta di un moderno Visitors (con un grosso tocco di “Famiglia Robinson”), che, tuttavia, almeno per quanto abbiamo potuto vederne, ci lascia solamente intravvedere gli alieni responsabili di tutte le efferatezze che cominciano sul nostro pianeta, se non altro perché essi sono ben consapevoli che i terrestri sono i migliori aguzzini di loro stessi. Nelle stagioni, inoltre, la serie è molto mutevole.

Nella prima ecco un distopico che ci ricorda “L’uomo nell’alto castello”, nella seconda siamo più in un avventuroso da “I sopravvissuti”, nel terzo in atmosfere urbane e ovattate che servono solo da preludio a una quarta stagione che non vedremo mai e che presumibilmente avrebbe dovuto, almeno in parte, svolgersi nello spazio.

Alla fine vediamo, infatti, i cieli accendersi; le navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione  si sono spostate molto più vicino a noi e i raggi B non balenano più nel buio presso le porte di Tannhäuser, ma sfolgorano sul nostro orizzonte. E soprattutto vediamo il nostro eroe che, dopo infinite peripezie, viene congelato per essere spedito a combattere nello spazio una battaglia a cui non potremmo assistere perché, evidentemente… sarebbe costata troppo.

Colony: drone volanteFino a quel punto, infatti, la produzione era stata molto abile nel lesinarci le immagini e le situazioni più propriamente fantascientifiche, cavandosela con piccoli, sia pur ben fatti, inserti di effetti speciali, di pochi secondi l’uno. Pur non essendo certo una creazione al risparmio, Colony sopporta, dunque, i costi di un normale poliziesco televisivo. Non si fa fatica a intuire che, in mancanza di un successo di livello mondiale, la produzione, di fronte all’idea di entrare in un budget da guerre stellari, si sia spaventata.

In questa serie monca, non vediamo dunque gli alieni, se non raramente, non ci viene dato modo di comprendere il loro mondo, difficile è intuire le reali motivazioni, ma ci sono egualmente elementi di interesse.

Per inciso, la sceneggiatura è anche funestata da un espediente che colpisce spesso le odierne produzioni statunitensi: i protagonisti fanno una marea di sciocchezze mettendo se stessi e i loro cari in constante pericolo. Questo non è di per sé un fatto poco realistico, noi commettiamo una marea di minchiate, ma bisognerebbe anche considerare che se faccio una grossa stupidaggine in una storia di fantascienza essa tenderà ad assumere proporzioni galattiche, che gli stessi sceneggiatori faranno poi fatica a controllare.

Una lode particolare, invece, ai creatori degli effetti sonori che riescono a volte darci una dimensione spaventosa degli alieni che le immagini altrimenti non ci trasmetterebbero.

Detto questo, Colony è molto emblematica di un fenomeno sociale importante negli Stati Uniti e, credo, in tutto il mondo occidentale.

Per comprenderlo, occorre considerare il fatto che i creativi sono delle buone antenne per interpretare la società che li circonda e sicuramente gli sceneggiatori americani sono delle antenne straordinariamente sensibili, riguardo a ciò che scivola nelle vene del loro popolo. Molte produzioni USA di fantascienza, infatti, esprimono un forte disagio, una confusione, un caos etico, politico e morale che diventa sempre più pressante.

Sicuramente, fa parte della storia della fantascienza raccontare vicende in cui l’eroe si batte contro l’ordine costituito (tanto è vero, si dice che negli anni settanta, nei covi delle Brigate Rosse, spuntassero di frequente dei numeri di Urania). Spesso, perciò, ci troviamo di fronte ad opere di carattere tendenzialmente sovversivo. Si giunge per esempio al paradosso di “V come vendetta”, che è un film costoso e pagato con i capitali di imprenditori sicuramente confidenti nel sistema capitalistico, e che tuttavia è un colossale inno alle filosofie anarchiche.

Colony, credo senza volere, si spinge oltre, e manifesta quello che oggi è forse il modo di pensare più diffuso e di cui cercherò di trarre una sorta decalogo:

  1. Il mondo umano è marcio fino alle fondamenta;
  2. Non puoi fidarti di nessuno, perché chiunque può diventare un delatore o financo un assassino, se messo nelle giuste circostanze, che puntualmente si verificheranno;
  3. Le religioni e ogni promessa di salvezza sono solo strumenti di potere di qualcuno;
  4. I politici sono tutti corrotti e privi di scrupoli, persi nel tentativo di restare a galla in un mondo mutevole che facilmente li mastica e li distrugge;
  5. Le istituzioni sono inaffidabili, anch’esse in balia di forze che le soverchiano, quando non sono paralizzate dai propri dissidi interni;
  6. Tutti i gruppi e i tentativi di ribellione, sono sciocche farneticazioni, deliri di leader accecati da se stessi, o brancolamenti disperati di persone che non sanno minimamente cosa stanno facendo;
  7. Ogni ribellione è vana, perché i poteri che sono in gioco vanno al di là di ogni possibile intervento umano;
  8. Adattarsi al sistema può essere temporaneamente comodo, ma la veloce evoluzione delle cose non consentirà di godere a lungo di questi vantaggi;
  9. Non c’è più salvezza neanche nell’intimismo, la famiglia è crollata e nessuno sa più dove dirigersi;
  10. Combattere per i propri ideali è eroico, lodevole e confortante, ma non serve a niente, perché gli ideali semplicemente non esistono più.

Mi sono fermato a dieci volutamente, ma avrei potuto andare avanti ancora per un po’, tanto è lancinante vedere i protagonisti di questa storia dibattersi nella ricerca di una risposta e di una soluzione che non si trova. In effetti, in queste condizioni, sbagliare è quasi obbligatorio.

Concludendo, in questa chiave di lettura, la visione di Colony è quasi indispensabile, ma solo se siete pronti a sopportare la pena di doversi affezionare a un gruppo di, spesso esasperanti, personaggi che non potranno mai trovare la loro definizione in un mondo così complesso e difficile, che non ha neanche saputo trovare il coraggio e il denaro per varare la quarta stagione.

 

 

 

Giorgio Sangiorgi
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Sangiorgi lavora e vive a Bologna. Dopo un esordio nel campo del fumetto, ha vinto alcuni premi letterari locali per poi diventare uno degli autori e dei saggisti della Perseo Libri Il suo libro "La foresta dei sogni perduti" ha avuto un buon successo di pubblico. Ora pubblica quasi esclusivamente in digitale e alcuni suoi racconti sono stati tradotti e pubblicati in Francia e Spagna.

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