Alveare
Guardo questa nuova serie tv che danno in seconda serata, ma la domanda che mi continuo a porre è: perché proprio io? Alla fine dei conti, non sono niente. Mi fregio del titolo di giornalista, ma il massimo che sono riuscito a ottenere è un posto in un blog di “informazione alternativa”. Un modo elegante per dire fake news.
Mi fecero entrare in un ufficio enorme che avevo già le viscere annodate per la tensione. Da quando mi ero svegliato, le avevo già svuotate tre volte, ma non sembrava ancora sufficiente. Come se fossi tornato all’università. Gli uomini che mi avevano scortato fin lì scomparvero e la porta si richiuse alle mie spalle senza un suono.
Lei era lì, forse guardava fuori dalla finestra, nascosta dallo schienale della sua poltrona come fossimo in un film. Mi aspettavo da un momento all’altro che si girasse e dicesse che mi stava aspettando, il tutto mentre accarezzava un gatto persiano o che so io. Invece si alzò dalla sua postazione dietro l’enorme scrivania e mi venne incontro con la mano tesa. Niente gatto.
“Buongiorno. Lei è Fawkes89?”
“Sì, sono io” risposi, tutto in un fiato.
“Molto bene. Si accomodi, così possiamo cominciare”.
Mi indicò una delle due sedie posizionate davanti alla scrivania e si adagiò sull’altra. Non ritornò al posto di comando. Ottima mossa. Annullare le distanze.
***
Questo mal di testa mi impedisce di seguire il telefilm. Vorrei sgombrare il cervello dagli avvenimenti della giornata, ma ho serie difficoltà a concentrarmi.
Nel lavello ci sono pentole e piatti sporchi, ma dovranno aspettare. Prendo una birra dal frigo, la stappo con l’accendino e mi siedo sul divano. Forse sono ancora in tempo per riallacciare i fili della trama. No, nulla da fare. La testa sta per scoppiarmi. Magari.
Sono l’ultima ruota del carro. Lavoro da casa. Non incontro mai nessuno della redazione e vedo poca gente in generale. Se sparissi nel nulla, nessuno se ne accorgerebbe. Se venisse fuori che sono un serial killer, nessuno potrebbe dire che salutavo sempre, perché sono solo un nome sull’assegno per l’affitto e un nickname che scrive notizie “fantasiose”.
Funziona in questo modo. Dalla redazione – la chiameremo così per comodità, anche se non so quanto possa calzare il termine – mi arriva una bozza di idea per un articolo. Io prendo questo germe e lo faccio crescere, farcendolo di dati credibili e pathos. Tanto pathos. E indignazione, non dimentichiamocelo.
Sono bravo, questo lo so, ma rimane la domanda. Perché proprio io?
***
Il primo motivo che mi venne in mente fu che il nuovo Capo del Governo volesse tentare qualcosa di nuovo. Forse preferiva che la sua prima intervista dopo le elezioni fosse condotta da una pacifica nullità. Molto democratico. Molto popolare.
Senza nessun ostacolo tra di noi, potevo ammirarla meglio. Era bella, tanto da sembrare finta. Indossava un sobrio tailleur grigio che, quando si sedette, la lasciò scoperta dalle ginocchia in giù. Niente di volgare o troppo audace, ma sentivo in ogni caso un formicolio.
“Si starà chiedendo perché ho chiesto proprio di lei per essere intervistata.”
“Effettivamente sì.”
Ero seduto davanti alla Presidente del Consiglio e lei aveva un’aria divertita, come se fossi una simpatica anomalia nel quadro generale delle cose.
“Mi è piaciuta molto la sua ricostruzione sulle origini del mio successo. Aspetto con ansia il seguito, magari sulla provenienza dei fondi della campagna elettorale. Ha già qualche idea?”
Tombola. L’ultimo soggetto che mi era arrivato dalla redazione, quello che attribuiva la schiacciante vittoria della nuova formazione politica a un’influenza extraterrestre, era in realtà basato su fatti reali e non il risultato di collettive fumate di marijuana, chiamate formalmente riunioni dello staff. Significava che mi avevano attirato lì per farmi fuori. A Palazzo Chigi. Bella questa.
Comunque, ne era venuto fuori un articolo discreto. Forse un po’ zoppicante sui motivi che avrebbero spinto queste entità aliene a influire sulle elezioni di un Paese che non ha mai contato un cazzo, ma soddisfacente se consideriamo i nostri lettori abituali. Si bevono storie sulla terra piatta, perché non dovrebbero bersi pure questa.
Mi guardò deglutire e sorrise compiaciuta. Anche se la sua era una presenza relativamente nuova in politica, sembrava avere il completo controllo della situazione. E io, mi duole ammetterlo, di politica reale non capivo e non capisco nulla.
“Beh, allora direi che possiamo cominciare”. Sentivo che stavo iniziando a sudare. “Allora, in campagna elettorale la sua figura ha avuto una grande presa sulla masse. È qualcosa che va molto al di là della consueta portata dei populismi visti finora in ambito europeo. Nonostante questo, i punti programmatici del suo partito…”
“Non mi piace quella parola.”
“Partito?”
“Già.”
“Preferisce movimento?”
“Ancora peggio. Non userei neanche corrente”. Si riavviò i capelli dietro un orecchio e sentii che mi stavo distraendo. Se non fossi riuscito a rimanere concentrato, mi avrebbe visto sbavare e mi avrebbe sbattuto fuori. E allora addio salto di qualità. Addio carriera da giornalista vero. Però era bella…
“Queste sono tutte parole divisive” riprese. “Il movimento, per sua stessa denominazione, si agita spesso contro qualcosa. Partito è sintomo, appunto, di una parte. La corrente si muove in un senso o nell’altro all’interno di uno spazio estraneo. A me, a noi, tutto questo non interessa”.
Inspirò profondamente e si mise a osservare qualcosa sul soffitto, in cerca delle parole giuste. Potevo ammirare la curva della sua gola e la depressione dove si congiungevano le scapole.
“Quando sono stata eletta per guidare questa Nazione, ho affermato che lo avrei fatto per tutti. Non solo per i miei elettori. Non solo per quelli che cambieranno idea da qui a qualche mese e mi sosterranno. Ma anche per quelli che sono contro di me e lo saranno sempre. A me non interessa la parte. A me interessa il tutto.”
“E come pensa di farlo?”
“Con la politica. La politica può fare tutto. E soprattutto può farti fare tutto.”
Sull’orlo della sua giacca c’era un ragno minuscolo. Zampettava risalendo l’orlo, per poi avventurarsi nella zona di pelle nuda tra la collana di perle e la scollatura della camicetta. Provai una feroce invidia per quell’essere insignificante eppure così fortunato.
La Prima Ministra cambiò posizione sulla sedia. Dischiuse un po’ le gambe e poi le accavallò di nuovo. Un movimento normale, nulla di volutamente seducente, ma per me diventò Sharon Stone. Diventò la Catherine Tramell di Basic Instinct. Anno Millenovecentonovantadue.
Il telefono sulla scrivania iniziò a trillare e la donna allungò un braccio per sollevare la cornetta. Si portò l’indice dell’altra mano alle labbra – facendomi morire – e parlò.
“Sì?… Certo… Capisco… Subito. Arrivederci.”
Ripose la cornetta al suo posto e mi guardò con aria desolata.
“Mi dispiace, ma dovremo continuare domani.”
Una volta fuori dall’ufficio, mi resi conto che non avevo neanche acceso il registratore.
***
Oltre il nastro rosso e bianco messo dalla polizia, a terra è stato adagiato un lenzuolo che copre come può il corpo. Il cadavere giace in maniera scomposta, con le mani e le scarpe che spuntano da sotto il telo. Sul bianco del tessuto si vedono numerose macchie di sangue, lì dove la vittima è stata colpita. Sembra ketchup e storco il naso. Potevano impegnarsi di più. Nelle mie intenzioni vorrei prendere il telecomando e vedere come si chiama il programma, ma ho troppo sonno e…
***
Il secondo giorno, la Prima Ministra sembrò intuire le domande che mi ero appuntato sul bloc-notes e mi anticipò parlando di diritti. Premetti il tasto per registrare, ma il display era morto. Batteria scarica.
“Alcuni dei nostri detrattori ci accusano di voler togliere alcune libertà fondamentali a determinate categorie e di volerne regalare altre ai nostri sostenitori. Niente di più falso.”
Il suo viso appariva deciso, quasi brutale nella sua algida bellezza. Il giorno prima, ero divorato dall’ansia. Quella mattina ero invece pervaso dalla smania dell’attesa e cercavo di muovere il tempo più velocemente fissando le lancette dell’orologio ogni trenta secondi. Il tempo. Il tempo sembrava confondersi. Il tempo si confonde.
Appena sveglio, con la bava che inzuppava il cuscino del divano, volevo essere già lì. Adoravo il suono della sua voce. Il risultato elettorale non mi sembrava più così miracoloso. E il tempo sembrava appiattirsi. Il tempo perde importanza.
***
Nel telefilm che ho iniziato a seguire ieri sera sembra che la stessa scena si stia ripetendo per la seconda volta: c’è la zona interdetta ai curiosi, il lenzuolo macchiato di sangue.
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“Quello che a noi interessa, come ho già accennato, è preservare tutti gli interessi della vostra specie.”
“La vostra specie?”
“Nel nostro ruolo di politici, nostro dovere è badare agli altri. Concedere diritti e privilegi a una fazione e sottrarli o limitarli a un’altra va contro i nostri principi. In questo modo si creano divisioni e noi abbiamo bisogno di un’umanità che sia un unico blocco compatto.”
“Per coltivare l’armonia o per controllarla meglio? Mi scusi, ma parla come se fosse diventata il capo del pianeta…”
“Armonia, controllo… Dal mio punto di vista sono sinonimi. Ma non pensi che la mia visione sia quella di uno stato fascista. Anche lì ci sarebbero divisioni e privilegi, in cambio di cosa? Di risentimento mascherato da adunate plenarie? No, non fa per noi. Pensi piuttosto a un alveare. Migliaia, milioni di api operose che conoscono il proprio dovere e ne fanno l’essenza della propria vita. Di quali diritti hanno bisogno se non quello di sopravvivere un altro giorno per preservare la specie con il loro lavoro?”
Ero confuso, come se fossi entrato in una profumeria e tutte le boccette fossero esplose nello stesso istante. Era qualcosa che mi attanagliava simultaneamente l’olfatto e l’udito, ma non riuscivo a sentire né percepire niente di anomalo. Cercai di mantenere la lucidità e condurre l’intervista in maniera professionale, senza guardare la casta scollatura della donna più potente del momento.
“È questa quindi la sua visione? Sembra più una distopia.”
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Il giornalista deve essere il protagonista della serie tv. Se solo vi avessi prestato più attenzione, adesso non farei tutta questa fatica a seguire la trama. Sta facendo domande a quello che deve essere il questore, un uomo stempiato dallo sguardo torvo.
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“Questo perché a voi uomini la collettività fa paura. Vi intimorisce non essere più individui, anche se solo con una parvenza di libero arbitrio. Far parte della massa vi fa ribrezzo, ma è quello che siete in realtà ed è nostro compito proteggervi dalle vostre illusioni e farvi far pace con la realtà.”
“Il nostro compito… le vostre illusioni. Ma…”
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La seconda vittima del killer è una donna, dice lo speaker, è c’è un collegamento con il primo omicidio. La polizia ha già un identikit dell’assassino perché l’idiota ha agito a volto scoperto in una zona piena zeppa di videocamere di sorveglianza. È solo questione di tempo ormai. Noto che gli sceneggiatori hanno voluto dare un tocco di realismo al tutto e hanno avuto la bella pensata di inserire, lì in basso a destra, il logo di un telegiornale.
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“La politica è una specie a parte, così come lo sono i politici. Non c’è nulla – e sottolineo nulla – che la politica non ti possa far fare. Vero Fawkes?”
Non riuscivo a far altro che annuire. Avevo lo stomaco sottosopra. Influenza o qualche porcheria che avevo mangiato. Avevo i brividi.
Non riuscivo però a non ammirare le gambe della donna. I suoi splendidi polpacci. Il collo del piede e la scarpa a tacco alto che fasciava la caviglia. C’erano due scarafaggi che si rincorrevano fra le Gucci e uno dei due sembrava volersi arrampicare e avventurarsi su quelle autostrade di libertà che erano le gambe della Prima Ministra, anche se per me erano ormai quelle di Anne Bancroft, la signora Robinson de Il Laureato. Millenovecentosessantasette.
Mi tappai la bocca con una mano e fuggii dall’ufficio, mentre la sentivo dirmi che non aveva importanza, che avremmo potuto riprendere l’indomani.
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L’episodio finisce in una sigla epica e roboante, più adatta a un fantasy che a un true crime. Abbasso il volume e mi addormento davanti al televisore che, indifferente, continua a illuminare la stanza.
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Potrei dire che l’indomani era oggi. Ma il tempo si confonde, come ho già detto.
Forse riusciremo a completare questa benedetta intervista, ma la mareggiata che ho dentro continua a fare vittime nel mio apparato digerente. Lei mi guarda e so che vede qualcosa ai limiti della definizione di umano. Stamattina lo specchio è stato impietoso. Occhiaie, pelle flaccida e pallida. Fenomeni di epistassi. La camicia dentro cui ho dormito stanotte è tutta macchiata di sangue sul davanti.
Il tempo gocciola via.
Nella puntata del poliziesco che sto guardando, si vedono le camionette della polizia che si ammassano di notte in una via del centro, dirottando il traffico e riempiendo la notte di lampeggianti e ordini perentori. Un elicottero illumina a fasi alterne un palazzo anonimo di una periferia qualunque e la folla di curiosi che, nonostante la tarda ora, accerchiano forze dell’ordine e giornalisti.
Stavolta non mi sono neanche disturbato a portare il registratore. Né il blocco degli appunti. A un certo punto mi sembra di leggere negli occhi della Prima Ministra qualcosa come un moto di approvazione. Sto cercando di svolgere il mio lavoro senza pensare. Sì, sta annuendo.
“Quando è venuto qui la prima volta le ho mentito” inizia lei. “Anzi, neanche questo è del tutto esatto. Le ho semplicemente detto che mi piaceva la sua ricostruzione dei fatti.”
L’assassino è stato identificato e adesso è barricato all’interno della sua abitazione. Le vittime gravitavano entrambe nell’area del giornalismo alternativo – delle fake news – e alcune mail contenute nei loro computer hanno portato gli investigatori sulle tracce del killer, che per il momento non sembra intenzionato ad arrendersi.
Faccio un gesto con la mano per scacciare via un po’ della nebbia che mi si è accumulata dentro la testa. Lei si comporta come uno specchio e mi imita. Faccio finta di capire e annuisco. Lo fa anche lei.
“Le idee che lei ha trasformato in articolo erano buone, ma non del tutto esatte. I suoi colleghi le hanno passato delle informazioni parziali, seppure con un minimo di involontario fondamento. Ma ormai non conta più.”
Annuisco come un cagnolino dal collo a molla sul cruscotto di un’auto. La Prima Ministra fa lo stesso, ma il movimento è più ampio: tocca il petto col mento e poi la sua faccia quasi scompare dietro lo schienale della sedia. Anche il suo trucco è più pesante, il rossetto più rosso e più largo. Sto parlando con un clown. Poi ritorna la stessa di sempre.
Tutta l’azione è filtrata attraverso la narrazione dello speaker. Tutti questi esperimenti di narrazione, di mockumentary, mi hanno fatto quasi passare la voglia di guardare la televisione. Poteva essere originale all’inizio del decennio scorso, ma adesso tutte queste idee prefabbricate hanno stufato. Trovassero qualcosa di meglio. Di certo io saprei mettere sul tavolo un copione decente.
“Però non prendiamoci in giro. Extraterrestri. Ma andiamo!” sghignazza. “Non siamo mica alieni. Basta con queste contrapposizioni. Noi non veniamo da fuori. Non siamo in fuga da altri mondi o in cerca di nuovi territori di conquista. Non veniamo da qui dentro” e si tocca il cuore con dolcezza.
I reparti speciali hanno fatto irruzione nel palazzo. I cingalesi del piano di sotto fanno un baccano tale che sembra di avere davvero le scale invase dai soldati. Me ne lamenterò con l’amministratore.
Continua a toccarsi il petto, con le unghie laccate di rosso sulla pelle pallida. Inizio ad ansimare e due brividi mi risalgono le gambe per poi congiungersi nello scroto. La desidero anche se non ho la forza di muovere un dito.
“Noi siamo la dimensione nuova che nasce da quella vecchia e la fagocita. La specie deve essere preservata e protetta. Per questo deve evolvere e lasciarsi dietro le spalle tutto il superfluo. La decrescita spirituale. Tutto ciò a cui l’ape non deve, non vuole pensare. Ciò che conta è l’alveare. Non c’è nulla che l’Alveare non possa farti fare.”
Dischiude quelle labbra carnose e rosse. Per un attimo sembra che voglia baciarmi e io mi sento invincibile nella mia paralisi.
“Ti ringraziamo per il tuo servizio” dice.
Dalla bocca aperta escono delle appendici carnose. La gola della mia amata si muove su e giù e nel contempo emette versi a metà strada tra il dolore e il piacere, perfetta sintesi dello stato in cui mi trovo. Le appendici si liberano dall’esofago, lottano le une contro le altre finché non emergono dal cavo orale e si protraggono verso di me, viscide di piacere. Ogni ventosa si attacca al mio corpo per baciarmi e ricompensarmi e questo mi basta per tutto. Per quello che ho voluto e che non ho ottenuto. Per quello che ho adesso e non avrei mai immaginato. Al culmine dell’orgasmo la guardo ed è come ammirare una seppia in tailleur e collana di perle, ma l’altra associazione che mi viene in mente – nonostante sia etero – è Jeffrey Duncan Jones. Il Dottor Jenning di Howard il Papero. La scena dell’accendisigari. Millenovecentoottantasei.
E poi c’è la trama che proprio non funziona. Cosa avrebbero a che fare un assassino di giornalisti scomodi, le sue vittime, le fake news?
La polizia assedia questo palazzo che sembra quello dove abito, ma in periferia i condomini si assomigliano tutti. Ora c’è la scena dei reparti speciali che si radunano davanti alla porta del sospetto, con i loro caschi e i giubbotti antiproiettile.
Forse dovrei lavarmi via questo sangue dalle mani e cambiarmi la camicia. In pigiama starei più comodo.
Cerco di ricordare gli episodi passati, ma non tutti questi colpi alla porta non riesco a pensare.
“Andatevene a dormire, che qui c’è gente che domani lavora” grido, ma loro niente. Insistono.
Alveare è un racconto © 2020 di Flavio Torba.
Flavio Torba
è un ingegnere – cresciuto a Stephen King e Clive Barker – che da un paio d’anni si dedica alla scrittura sotto pseudonimo. Ha pubblicato racconti su lit-blog come Verde, Reader For Blind, L’Ircocervo, Spazinclusi e in antologie come Carnaio (2019, a cura della rivista La Nuova Carne) e Il Buio (2019, dell’omonima rivista). Ha un romanzo in cerca di editore.