LA COMPENSAZIONE DI C. V. TENCH
Mondi Passati – Vintage
Tratto da Astounding Stories of Super-Science gennaio 1930
“E che diavolo, John!” Mi sono bloccato involontariamente all’ingresso del mio accogliente appartamento da scapolo, quando il flusso di luce prodotto dalla rotazione dell’interruttore mi rivelò la figura accasciata, rannicchiata sulla poltrona.
“Sissignore, sono io.” L’uomo si alzò in piedi, sfregandosi gli occhi con le mani nodose. “È tutto il giorno che vi aspetto. Il custode mi ha detto che sareste tornato presto e mi ha fatto entrare. Devo essermi addormentato e niente di strano, perché le tensioni dell’altra notte non mi hanno permesso di riposare.”
“Tensioni? Riposo?” Fissai smarrito il fidato servitore del mio amico professor Wroxton, cercando comunque di nascondere un po’ di apprensione, dovuta al fatto che quell’uomo mi avesse aspettato lì tutto il giorno.
Misi via in fretta le mie cose e gli dissi di star seduto; poi mi sedetti di fronte chiedendogli una spiegazione.
“‘È per il professore, signore.” Il vecchio mi guardò ansioso, con lo sguardo aggrottato. “È abbastanza consueto che mi faccia venire qui per dei messaggi, signore, ma oggi sono venuto per conto mio, perché, signore,” finalmente rispondendo alla domanda che leggeva nei miei occhi, “Io non l’ho più visto da ieri sera”.
“Come mai…” cominciai.
“È tutto, signore.” Mi bloccò John. “Per vent’anni mia moglie e io abbiamo curato il professore a La Grange. In tutto questo tempo non è mai stato via di notte. Ogni volta che doveva venire in città ce lo diceva. La maggior parte delle volte lo accompagnavo io stesso con la vecchia automobile. Il che succedeva molto raramente, signore, perché il professor Wroxton aveva pochi interessi là fuori.”
“Ma, John,” protestai “che ragione potrebbe esserci per tanta agitazione? Forse il professore ha avuto una chiamata urgente, o ha fatto una passeggiata e ha guidato lui.”
“No, signore. Perdonatemi, signore, ma vi sbagliate. Il professore era fissato nelle sue abitudini. Non sarebbe andato via senza dirmelo. Pensate, signore, ché conoscete il professore come me. Anzi meglio, perché voi siete suo amico e io sono solo un servo. Anche se, signore,” lo disse con orgoglio, “mi ha sempre trattato come un amico.”
“Vai avanti”, l’ho esortato capendo che non era tutto.
“Beh, signore, pochi minuti fa mi avete chiesto se non avessi altro motivo per la mia agitazione. C’è, signore. Sapete, signore, che per vent’anni e più il professore ha condotto una vita molto appartata, una vita da… da…”
“Recluso”, ho suggerito.
“Giusto, signore. Si allontanava dalla Grange solo se era indispensabile. Era tutto concentrato su una cosa strana che stava inventando. In tutti questi anni l’unico visitatore che avesse frequentato il suo laboratorio siete stato voi: l’unico che sia rimasto alla Grange per qualche giorno. Cioè, signore, fino a tre giorni fa.”
“Va avanti,” l’ho esortato di nuovo, perché mi stava prendendo una po’ della sua ansia.
“Signore, La Grange, così com’è, a quindici miglia dalla città, un po’ nascosta nel suo appezzamento lontano dalla strada, non è conosciuta da molti. Se qualcuno dovesse entrare nella proprietà, di solito non ci metto mai molto a dirgli di andarsene. Tre giorni fa, uno sconosciuto è arrivato alla porta con una bella macchina. Mi ha detto che voleva comprare una casa di campagna. Gli ho detto che La Grange non era in vendita e l’ho mandato via. Quell’uomo stava voltando la macchina per andarsene, quando è uscito il mio padrone. Con mia grande sorpresa, ha invitato lo straniero a entrare. Sono sicuro, signore, che lo straniero non avesse mai visto il professore prima, perché sembrava davvero sorpreso.”
“E poi?” Ho chiesto, ed ero decisamente a disagio.
“Lo straniero — signor Lathom si chiamava — si fermò. Ieri sera erano entrambi nello studio del padrone. Questa mattina non c’era traccia di nessuno dei due.”
“Ma, buon Dio, John!” Scattai in piedi, con un diverso tipo di spavento in cuore. “Che cosa vorresti dire? Il professore e il signor Lathom potrebbero benissimo essere partiti in auto durante la notte.”
“Le auto, signore,” rispose il domestico, “sono tutte e due nel garage. Io stesso chiudo tutte le porte della casa ogni sera. Erano ancora chiuse lì questa mattina. Mia moglie e io abbiamo controllato la casa dalla cantina alle soffitte e per tutto il parco. Non siamo riusciti a trovare traccia del padrone e del suo ospite.”
“Vorresti dunque suggerire,” berciai, “che due uomini adulti siano scomparsi completamente? È assurdo, John, assurdo!”
Per qualche minuto camminai su e giù, cercando disperatamente di pensare, ben conscio che il vecchio mi fissava ansioso. Mi venne quasi da sorridere. Era davvero tutto troppo ridicolo. Il vecchio John aveva vissuto male quella casa lontana dal mondo esterno. Poi, dovevo ammettere che l’atmosfera di La Grange, impregnata dai pericolosi giochini scientifici del mio amico, era certamente adatta a evocare presentimenti infelici nelle menti non istruite. Dovevo andare subito a casa del mio amico. Senza dubbio lo avrei trovato in perfetta forma. Non aveva mai voluto installare il telefono, quindi dovevo andare là.
“John.” A quel punto gli diedi una pacca su una spalla. “Andrò immediatamente a La Grange.” Il suo volto era piano di gratitudine. “Vedrai”, continuai lottando per infilare il cappotto, “che troveremo il professore e il suo ospite laggiù. A ogni modo è bene che tu ritorni da tua moglie a mangiare qualcosa.”
“Signore, spero proprio che abbiate ragione.” E così abbiamo lasciato l’edificio entrando nella mia automobile.
Avevo fatto di tutto per allontanare la mia paura, ma soprattutto avevo cercato di rassicurare John. In ogni caso, quella sera ho guidato come mai prima, né avrei mai fatto in seguito. Dopo soli quindici minuti arrivavo con la mia spider davanti alla breve rampa di scale che conduce alla porta principale de La Grange. Non eravamo ancora usciti dalla macchina, che la porta si spalancò e una donna agitata si affrettò a raggiungerci. Era Mary, la moglie di John.
“Signore!” Mi afferrò il braccio e mi fissò con volto ansioso. “Non sapete quanto sia contenta di vedervi. La Grange è una casa mortifera.”
Un brivido scosse tutto il mio corpo, nonostante mi sforzassi di contenermi. Spinsi delicatamente la donna verso John e salii i gradini.
Mi fermai davanti alla porta aperta, mentre la coppia di anziani seguiva dappresso i miei passi: la donna continuava a mormorare parole di morte. Non potevo biasimarla. Era stata sola per tutto il giorno in quel cupo edificio, decadente, vecchio, senza dubbio chiedendosi perché né io, né John fossimo tornati prima.
La casa era davvero cupa. Anche quando soggiornavo lì su richiesta del professore, avevo sempre pensato che fosse un luogo cupo e deprimente; come se tra le sue mura si nascondessero le oscure ali della tragedia secolare che aveva convinto il mio amico a ritirarsi in quel luogo dimenticato da Dio. Per poi assorbirsi completamente nei suoi esperimenti scientifici.
Anche adesso, mentre osservavo il corridoio poco illuminato, l’aria sembrava carica di quella cosa maligna che non saprei proprio come descrivere.
Mi feci coraggio e mi precipitai di corsa nel corridoio, spalancando la porta dello studio. Le luci lì erano tutte accese e mi bastò uno sguardo per capire che il mio amico non c’era. Restai immobile, oscillando sui tacchi e l’orrore dei domestici, gente onesta, sana, non facilmente spaventabile, invase anche me. Per qualche motivo la vista di quella stanza, con le luci tutte accese, le sedie appoggiate al caminetto ormai spento, mi ha fatto capire che c’era qualcosa che non andava. Qualcosa di serio. Mi rimproverai per aver pensato che l’agitazione di John fosse esagerata.
Fu un momento: restai immobile, cercando di nascondere il gelo che sentivo nelle vene, chiedendomi cosa si potesse fare. Decisi di perquisire a fondo la casa. Se non avessi trovato traccia del professore, o del suo ospite, allora avrei chiamato la polizia.
L’anziana coppia, tremante, ma desiderosa di aiutare, mi condusse da una stanza all’altra, dalla soffitta al seminterrato, fino a quando non rimase che un unico posto da controllare: il laboratorio. Esitai per alcuni secondi di fronte alla porta chiusa del luogo deputato del mio amico. Non che non fossi mai entrato in quella stanza che, per un profano come me, aveva uno strano fascino. Ero stato lì dentro molte volte con il professore. Ma adesso avevo paura di ciò che potevo trovare.
Mi feci coraggio è provai delicatamente la porta. Con mio rinnovato spavento, quella cedette al primo tocco. Il professore l’avrebbe sempre tenuta chiusa a chiave. Sobbalzai nuovamente terrorizzato, quando, dopo aver spalancato la porta, mi ritrovai improvvisamente abbagliato da potenti lampade. Qualcuno aveva lasciato le luci accese anche lì!
Inorridito mi allungai per vedere meglio, sapendo che anche la coppia di anziani fissava la stanza con occhi spalancati e percepivo il loro respiro ansante. Ma paura di cosa? Non lo sapevo. Sapevo solo che l’atmosfera era ancora più sinistra. Sapevo che qualcosa di terribile era successo in quella stanza.
Tremante di terrore mi costrinsi a fare un passo avanti, guardandomi attorno. A un’estremità della grande stanza c’era qualcosa che brillava sotto le luci. Mi avvicinai lentamente per controllare: sembrava una teca di vetro, una specie di vetrina di circa un metro quadrato di base, alta due metri. Feci un giro tutto attorno in modo meccanico, mentalmente sconvolto. Non notai il minimo segno di ingresso. Il fatto mi incuriosì. Con le dita toccai leggermente la superficie lucida che pareva fatta con lastre di vetro.
Potevo vedere John e la moglie attraverso la superficie trasparente. Mi stavano guardando da lontano, senza dubbio chiedendosi il motivo dei miei indugi. In quel mentre John si avvicinò improvvisamente alla teca sul lato opposto. Si mise in ginocchio guardando il pavimento. Mi si rivolse con sguardo insistito. Le labbra gli si muovevano senza dire parola. Seguendo il suo dito puntato rimasi a bocca aperta per ciò che vidi.
Vicino al centro della gabbia, sul pavimento costruito con la stessa sostanza cristallina, scintillava un oggetto di brillantezza quasi abbagliante, quando i raggi di luce lo colpivano. Avvicinai il viso alla fredda superficie esterna della struttura, e poco per volta capii scioccato che cosa fosse quel piccolo oggetto scintillante. Era un magnifico diamante. Il professore aveva sempre portato un anello di diamanti!
Improvvisamente frenetico per l’orrore, mi affrettai a girare attorno alla gabbia per raggiungere John, ancora inginocchiato. L’uomo sollevò la testa sconvolto e gracchiò, “È un diamante, signore! È del professore!”
“Ma come?” ho chiesto. “Come può essere? È impossibile entrare in questo affare. Forse il professore stava lavorando qui, e la pietra si è staccata dal suo castone. Non avrebbe potuto cadere dentro dopo il completamento della gabbia.”
“È il suo diamante, signore,” intonò il vecchio, con certezza. “So che lo è.”
Fui colto da un improvviso, irragionevole terrore. Mi allontanai da quella scatola luccicante che pareva deridermi, gongolando, malevola.
“Presto!” Ho urlato alla coppia di anziani. “Fuori di qui! Subito! Subito!” Non c’era bisogno di un secondo sollecito. Sapevo che si sentivano come me: il laboratorio era un sepolcro!
Cinque minuti dopo guidavo la mia auto sulla stretta strada verso la città. Non mi sono fermato fino a quando non ho raggiunto il comando di polizia. Immagino che il mio aspetto fosse sufficientemente turbato, da guadagnarmi l’immediata presenza del capo della polizia. In pochi istanti raccontai la mia storia. Il poliziotto ascoltò con gentile attenzione che però trovai piuttosto esasperante. Ben appoggiato allo schienale della sua sedia, ribadì alcuni fatti ad alta voce.
“Il vostro amico, professor Wroxton, si è sposato circa venti anni fa. Tuttavia, era così assorbito nella ricerca di qualche sua strana invenzione da trascurare del tutto la sua sposa. La quale è presto fuggita con un altro uomo. Quest’uomo l’ha pure lui abbandonata ed è scomparso. Il professore ritrovò la moglie molti mesi dopo, in pessima salute. Tant’è vero che poco dopo lei è morta. Il vostro amico ha cercato di seguire quell’uomo, ma ha fallito. Scioccato e rattristato oltre misura, si è dunque ritirato in un luogo noto come La Grange.”
Il capo si raddrizzò improvvisamente e mi puntò col suo grosso indice.
“Da quanto tempo conoscete il professor Wroxton?”
“Da circa dieci anni”, risposi.
“Che cosa stava cercando di inventare?”
“Non lo so”, risposi.
“Eppure avete la sua fiducia per altre questioni?”
“Ma che c’entra tutto questo con lo scoprire cosa è successo al mio amico?” sbottai. “Forse ogni istante che perdiamo è importante.”
“E sì.” Il capo mi guardò in un modo che non mi piacque. “Venite qui sconvolto dicendo che qualcosa vi turba oltre ogni dire, solo perché il vostro amico non è stato visto dai suoi domestici da circa ventiquattro ore, poi avete osservato quello che pensate possa essere il suo diamante, in una stanza di vetro nel suo laboratorio. Ma perché?”
“Non lo so dire.” Ero a disagio sotto il suo sguardo diretto. “In qualche modo sento che al mio amico è successo qualcosa di terribile.”
“Noi non ci basiamo sui sentimenti.” Il capo si alzò in piedi. “Ma mi avete detto abbastanza da giustificare un’azione. Vi prego di condurre me e un paio di uomini nella casa. Vi prego di attendetemi qui finché non torno.” E si allontanò dalla stanza.
Seduto lì in attesa del suo ritorno, cercai di riflettere sulla questione con la luce della ragione. Dopo tutto, forse il capo non aveva torto. Avevo questa terribile ansia solo perché il professore era stato assente per alcune ore e perché avevo visto in laboratorio quello che forse era il suo diamante. Quasi sorrisi tra me. In quell’ufficio l’intera faccenda sembrava assurda. Dopo tutto il professore non aveva nessun dovere di rispondere delle sue azioni al personale.
Passi pesanti, annunciarono il ritorno del capo, il che mi fece scattare in piedi. Pochi minuti dopo guidavo di nuovo verso La Grange in compagnia dei tre ufficiali.
Facemmo il viaggio in silenzio quasi completo. Di tanto in tanto il capo mi domandava qualcosa, ma, l’aria fresca della notte aveva un po’ placato il mio cervello febbricitante e le mie risposte furono prudenti. Lui si rese conto del fatto, perché sentii i suoi occhi su di me per tutto il tragitto. Mi chiesi cosa stesse accadendo dietro la sua ampia fronte.
Infine raggiungemmo La Grange. Mentre salivamo i gradini, John spalancò la porta, seguito da sua moglie. Rispose alla mia muta domanda scuotendo il capo in segno negativo, e disse: “Niente di nuovo, signore.”
Il capo lo guardò accigliato, poi gli ordinò seccamente di condurlo al laboratorio. John esitò, il viso era pallido. “Non ce la faccio, signore,” balbettò. Il capo allora lo chiese me. Avrei voluto seguire l’esempio di John, di nuovo l’atmosfera della casa mi colmava di un inestinguibile terrore, però condussi i poliziotti al laboratorio, rimanendo in piedi sulla porta per consentire agli ufficiali di entrare per primi.
Il capo osservò lentamente ogni dettaglio di quella stanza in pietra, con sguardo calcolatore. Poi mi si rivolse.
“Cos’è che vi mette paura qui?” indicai incerto la gabbia cristallina. Il capo e i suoi uomini si diressero in quella direzione.
“Sapete come si apre?”
“No”, risposi. “Durante la mia ultima visita la gabbia non c’era.”
“E quando è stata la vostra ultima visita?”
“Circa due o tre mesi fa”, risposi. ” Il mio lavoro mi fornisce molte occasioni per viaggiare.”
Il capo e i suoi si interessarono ancora alla gabbia, parlando a bassa voce. Poi si rivolse di nuovo a me.
“Si vede che questo oggetto è costruito a settori. Una di queste lastre deve essere mobile. Immagino…” si bloccò spostando gli occhi su alcuni fili e tubi che uscivano da sotto la gabbia e correvano sul pavimento, fino a una cassetta fissata al muro.
“Immagino,” ripeté, “che bisognerà operare da quella cassetta”. Si spostò e fissò pensieroso le leve lucide per alcuni secondi, poi ne spostò una appena, appena. Il risultato fu sorprendente. Ci fissammo tutti e quattro increduli, mentre una sezione di parete scivolava lentamente all’interno, senza fare il minimo rumore, come guidata da tracce invisibili sul pavimento e sul soffitto.
“Immagino che per ora sia sufficiente.” Ciò detto il capo si allontanò, quasi con rispetto dalla centralina, dirigendosi verso la gabbia. Esitò un istante, poi entrò ed emerse con l’oggetto scintillante in mano.
“È del professore,” affermai, avvicinandomi a lui.
“Come fate a saperlo?”, ribatté lui. “Le pietre non incastonate sembrano più o meno tutte simili.”
“Lo so e basta,” fu ciò che riuscii a balbettare.
“Giusto: lo sapete.” Il capo si sedette su uno sgabello e mi guardò con ostilità. “Signor. Thornton, all’inizio non sapevo se stavo per fare una caccia ai fantasmi o se fossi infine arrivato a una confessione. Mi davate l’impressione di uno che avesse commesso un grave crimine, o che stesse cercando di smaltire una brutta ciucca. Adesso sono certo…” – guardò ancora il diamante – “… che la vostra storia non è il prodotto di un cervello annebbiato dall’alcol. Forza!” Si alzò e mi afferrò per la spalla. “Andiamo!”
Non risposi, ma mi divincolai. Vidi dietro di me uno dei poliziotti alla porta. Improvvisamente nella mano dell’altro apparve un revolver. Buon Dio! Fissai disorientato prima uno, poi l’altro. Che pazzia era mai quella? Era di certo un terribile incubo! Cosa avevo mai detto per essere sospettato di un crimine terribile?
“Sedetevi!” giunse l’ordine del capo.” Trovai meccanicamente uno sgabello, e obbedii. “Tutti ai vostri posti, ragazzi, e ascoltate attentamente”, ordinò ai suoi uomini. Poi rivolto a me.
“Il professor Wroxton era un uomo ricco senza altri amici, né parenti?”
“Sì.”
“Conoscete la natura delle sue volontà?”
“Sì.” Ebbi un gelo al cuore, capendo che le circostanze mi stavano serrando in una rete.
“E quale era questa natura?”
“Questa casa e una rendita a John e a sua moglie”, spiegai. “Il resto della sua ricchezza a me.”
“Humf!” Il capo mi fissò attento. “E ultimamente come sono andati i vostri affari?”
Accidenti a lui! Che diritto aveva di farmi un terzo grado? Il mio orrore stupito all’inizio, stava lentamente cedendo il posto alla rabbia. Mi guardai attorno. La pistola ancora minacciosa; l’uomo alla porta non si era mosso. Inutile cercare di eludere la domanda.
“L’anno scorso”, risposi, “gli affari sono stati molto scarsi. Infatti, il professore mi ha prestato dei soldi.
“Humf!” Il suo verso incomprensibile, sempre più irritante,.
Il capo si voltò a fissare pensieroso la gabbia di vetro.
“E non sapete cosa stesse cercando di inventare il professore?”
“Ne conosco la natura”, cominciai.
“Ah! Molto bene. Perché non me l’avete detto subito?” Il poliziotto oscillò in avanti.
“Mah,” dissi, “sembra tutto molto assurdo. Quando il professore mi parlò della la sua vita coniugale improvvisamente spezzata, mi spiegò che a quel tempo lui percepiva le massime profondità della sofferenza umana. Lo chiamò lo zero assoluto.”
“Ah!”
“Gli esperimenti a cui si dedicava”, continuai cercando di nascondere il brivido che mi attraversava il petto, “dovevano produrre un vero stato di zero assoluto. Sono passati anni da quando me l’ha detto. L’avevo quasi dimenticato.”
“E esattamente cos’è uno zero assoluto?” Gli occhi del capo non avevano mai abbandonato i miei.
“Beh,” ho protestato, “vi prego, per favore, di capire che non sono un esperto di queste cose. Secondo il mio amico, lo zero assoluto era stato per secoli il sogno degli scienziati. E se infine qualcuno lo aveva forse raggiunto, il segreto è però andato perduto.”
“Ma esattamente… esattamente, cos’è lo zero assoluto?”
Maledetto quell’uomo! Avevo voglia di picchiarlo per il gelo che sentivo nel suo tono. Ma mi feci forza e proseguii, ben capendo che ogni ulteriore frase mi stava vieppiù dannando.
“Lo zero assoluto è un freddo così intenso da poter distruggere carne, ossa e tendini. Eliminarli completamente…” alzai la voce senza accorgermene, “…senza lasciare alcuna traccia”.
Nessuna traccia! Qualcosa mi ha attrasse. Il capo aveva aperto la mano, dove il diamante scintillò sbeffeggiandomi. Allora, mi feci forza e proseguii.
“Ecco adesso ricordo. Un giorno quando sono venuto qui a trovare il professore, lo trovai terribilmente scosso. Mi disse che, con l’aiuto della corrente elettrica, era riuscito a realizzare lo zero assoluto, ma non sapeva come costruire un contenitore”.
“Come mai?” gli occhi continuavano a perforarmi.
“Dovete ricordare che sono passati alcuni anni da quando me l’ha detto e all’epoca aveva delle difficoltà a controllare quell’energia. Quella cosa non distruggerebbe solo gli esseri viventi, ma anche i mattoni, la calce, la pietra e il ferro. C’era solo una sostanza che non poteva distruggere: la cristallina durezza del diamante.
“Ah, ho capito!” Saltai su e afferrai il capo per un braccio. “Adesso so cosa volesse dire. Ma che stupido! Perché non ci ho pensato prima? Tutto questo” – mi diressi verso la gabbia – “è la compensazione”. Ho proseguito quasi ansimando:
“Il mio amico mi ha spiegato che la legge di compensazione avrebbe risolto la tragedia della sua giovinezza. Lo zero assoluto della sua sofferenza giovanile poteva essere espiato solo attraverso un vero stato di zero assoluto. Capo!” Mi rivolsi al poliziotto. “Non capite? Questo è il completamento del sogno del mio amico. Lo zero assoluto.”
“Humf! Plausibile ma non convincente.” Alle parole del poliziotto mi sono nuovamente afflosciato. “Questo non spiega la scomparsa del professore. E se anche lo facesse, che ne è stato del signor Lathom? E non dimenticate che questo aggeggio viene operato dall’esterno. Abbiamo trovato il diamante dentro. Certo, avrebbe potuto metterlo lì solo per testare la macchina”, completò il suo pensiero.
“Ma è così,” esclamai. Ma mi pentii subito, notando il nuovo lampo di sospetto negli occhi del capo. Allora conclusi piano, “Probabilmente è subito scappato fuori, in un’estasi di trionfo, per avvisare i colleghi professori.”
“Senza chiudere le porte, né prendere una macchina, eh?”
“Signor Thornton.” Il capo si alzò e mi fissò severamente. “Siete un uomo sensato e non vi pare che la vostra storia sia un po’ troppo complicata? Il professore è scomparso. Qui abbiamo una scatola dall’aspetto strano che secondo voi sarebbe un contenitore per lo zero assoluto. Resta da dimostrare se voi davvero lo sappiate, o se state solo saltando alle conclusioni. Ma anche se fosse, credete che, dopo aver perfezionato una tale spaventosa invenzione, il professore si sarebbe suicidato?”
“Proprio no,” ansimai, “il mio amico era un uomo di carattere dolce e gentile, ma forte nella determinazione. Credo proprio che la prima cosa che avrebbe fatto dopo aver realizzato l’ambizione della sua vita, sarebbe stato di informare me, il suo più caro amico.”
“E invece no.” Ogni sua parola era di condanna e non potevo far altro che negare.
“Capo, per quel che so della legge, prima di poter condannare un uomo per omicidio, dovete dimostrare che un omicidio sia stato commesso.” Ho sorriso soddisfatto. “Dovete possedere il corpus delicti. Avanti! Trovate il mio amico o i suoi resti, altrimenti ritirate le accuse.” Ho sorriso di nuovo, ma senza nessuna allegria.
Poi mi presi la testa tra le mani. Avevo chiamato la polizia per trovare il professore, e quelli avevano sbagliato tutto, facendo un sacco di domande stupide. Il capo mi aveva praticamente accusato di omicidio, anche se non lo poteva provare, ma chissà se alla fine ce l’avrebbe fatta. Ero io che avevo detto al capo delle porte chiuse e delle auto inutilizzate e lui aveva limitato le sue indagini alla casa.
Il poliziotto interruppe i miei pensieri.
“Signor Thornton, adesso torno in città. Voi resterete qui con i miei uomini. Vi consiglio di dormire un po’, fino a che non avrò svolto alcune indagini domani mattina. Uno dei miei uomini resterà a perquisire la casa e controllare il possedimento, l’altro sarà con voi.”
Si voltò, mormorando alcune istruzioni ai suoi uomini, e lasciò silenziosamente il laboratorio, seguito da uno di loro. Feci per protestare, cercando di seguirlo; ma l’uomo alla porta mi bloccò. Silenziosamente, severamente, mi indicò uno stretto lettino in fondo alla stanza. Esitai, sentendo gli occhi dell’uomo su di me.
Avrei dovuto dormire sul letto del mio amico morto: ero sicuro che fosse morto! Dormire in quel posto spaventoso! Tutto il mio essere fremeva di orrore. Provai ancora a parlare a quel tale. Ma fu inflessibile. Forse questo era peggio di un terzo grado. Trascinai i piedi lentamente verso il letto, zoppicando per la debolezza e la stanchezza.
Finché vivrò non dimenticherò mai il mio risveglio. Una figura in uniforme, il capo della polizia, che mi scuoteva per la spalla. Altri due uomini in uniforme mi fissavano in silenzio. Mi sedetti e mi guardai attorno, stordito. La luce solare fluiva libera dalle finestre. Un bagliore isolato colpì la scatola. Mi ritrassi tremando. Eppure avevo dormito profondamente.
“Signor. Thornton,” disse il capo, “Ho importanti notizie per voi. Ho la prova certa che il vostro amico sia morto.”
“Mio Dio!” L’esclamazione fu inevitabile, perché mi venne in mente tutto quanto. “Dov’è? Come è possibile?”
“Ecco.” Mi infilò in mano un fascio di lettere. “Avete agito in modo strano ieri sera, facendomi sospettare di esservi macchiato di un grave crimine. Inoltre, avete trascurato diversi punti importanti. Voi siete tornato da un viaggio solo ieri sera.”
Ieri sera! Mi pareva fossero anni.
“Avevate lasciato istruzioni per far inoltrare la vostra posta”, continuò con voce neutra. “Queste lettere sono ovviamente di un giorno fa. Le ho raccolte nelle vostre stanze stamattina. Mi sono preso la libertà di aprirle. Leggete questa.” Fu lui a sceglierla dal mazzo.
Con dita tremanti estrassi dalla busta una singola pagina scritta. Riconobbi la calligrafia del professore. Cominciai a leggere con febbrile impazienza e ogni singola parola si stampava nella mia coscienza:
Caro Thornton:
Vi scrivo prima che accada. Farò in modo che la spedizione della lettera avvenga solo quando i miei piani saranno completati. Troppo tardi per tentare, con le migliori intenzioni del mondo, di frustrarli caro amico.
Forse ricorderete che molti anni fa, quando vi ho dato la mia piena fiducia, vi ho detto che ero sicuro che la legge di compensazione avrebbe potuto espiare in qualche misura la mia perdita. Thornton, vecchio amico, credo che, per tante ragioni, sia arrivata la mia ora. Due giorni fa ho realizzato lo zero assoluto. Ma c’è di meglio!
Oggi un uomo è giunto a casa mia. Lui non mi ha riconosciuto, ma io ho potuto vedere con facilità oltre gli strati degli anni che lo avevano cambiato. Forse è stato il Fato, chiamatelo come volete, ma il mio visitatore è l’uomo che ha distrutto la mia felicità.
Lo tratterrò con un pretesto. Lo indurrò a entrare nella gabbia di cristallo. Ho già organizzato un doppio controllo affinché l’elettricità distrugga il quadro comandi quando l’energia sarà applicata all’interno della gabbia.
Per favore, distruggete la gabbia. Io avrò avuto la mia compensazione molto prima che voi leggiate questa lettera.
Addio, caro amico!
Wroxton.
“Mi scuso, signor Thornton.” Il capo mi offrì la mano, che strinsi un po’ addolorato e un po’ sollevato. Il mondo aveva perso un genio. Io avevo perso un caro amico. Ma aveva ragione lui. C’era stata compensazione.
Copertina originale di H. W. Wessolowski: dipinto ad acquerello per il racconto “The Beetle Horde.”
Serie basata su racconti vintage, ritradotti per Cose da Altri Mondi.
Franco Giambalvo
Appassionato di fantascienza da sempre, ma ha scoperto di esserlo in quarta elementare quando lo hanno portato a vedere "La Guerra dei Mondi" di Byron Haskin: era il 1953 e avrebbe compiuto nove anni in quell'autunno. In seguito ha potuto scrivere con l'aiuto di Vittorio Curtoni e ha pubblicato un romanzo, del tutto ignorato, dagli Editori e dai lettori. Ma non si lamenta troppo: ama la fantascienza!