IL PRESIDENTE IN CINA
La copertina è World © di Roberta Guardascione
disegnata appositamente per Cose da Altri mondi.
Scelti dal Direttore
(da ROBOT n. 5, 1976)
Da Pro e contro: Kennedy,
Mondadori 1971
WASHINGTON 04 04 67 (NOTIZIA UPI): IL PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI HA ANNUNCIATO STASERA LA SUA INTENZIONE DI RECARSI IN VISITA A PECHINO ENTRO LA PROSSIMA PRIMAVERA, RACCOGLIENDO L’INVITO FORMULATO DA CIU EN LAI NELLO SCORSO APRILE.
NEW YORK HERALD
del 6 giugno 1967:
REAZIONI MONDIALI
ALL’ANNUNCIO
PRESIDENZIALE
«Benché nel Sinai tuoni ancora il cannone, l’attenzione degli ambienti politici e diplomatici è concentrata in questi giorni su Washington. Su tutte le prime pagine la notizia del viaggio del Presidente in Cina è l’unica che contenda spazio ai resoconti dell’avanzata dei carri di Dayan verso Suez. Mentre nelle capitali europee l’atteggiamento verso la decisione di JFK è generalmente favorevole anche se non entusiastico – fanno parte a sé gli sconcertanti commenti di De Gaulle – la reazione moscovita si può definire gelida. La radio e la televisione sovietica hanno ignorato completamente, fino a questo momento, la notizia, mentre la “Pravda” ha pubblicato stamane un trafiletto di sette righe. Silenzio completo anche ad Hanoi, capitale del Nord Vietnam.
«Negli ambienti delle Nazioni Unite si tende a interpretare il sensazionale annuncio come un primo importante passo americano verso il riconoscimento ufficiale della Repubblica Popolare Cinese e l’ammissione della Cina all’ONU. Ne sono prova, se non altro, le violentissime reazioni del governo di Formosa.»
«RICORDO che in quei giorni c’era aria di burrasca alla Casa Bianca. Anche se ufficialmente, di fronte al mondo ancora sbigottito e alla stampa in caccia frenetica di retroscena, regnava la concordia e l’ottimismo.
«È stato detto che raramente decisioni così importanti sono state prese da così pochi uomini. Ed è vero. Le sole persone con cui JFK si consultò in quelle settimane sull’argomento Cina furono Maxwell D. Tucker e il Segretario di Stato McNamara. Praticamente tutti gli altri – dal Vicepresidente ai capi del Pentagono – vennero informati solo a cose fatte. E non tutti furono d’accordo. Il capo dei Joint Chiefs of Staff ebbe col Presidente un colloquio burrascoso e se ne andò senza che JFK fosse riuscito a convincerlo delle sue ragioni. Le urla di Humphrey, di solito così compassato, durante la prima riunione dello staff presidenziale seguita alla decisione, si udirono ben oltre le pareti della Sala Azzurra. Ricordo che Jackie e persino Ted apparvero, per così dire, colti di sorpresa e sconcertati. Soltanto Robert appoggiò in pieno e incondizionatamente l’idea del fratello.»
Da I miei tre anni con JFK,
di David O’Casey,
Putnam & Sons, New York 1972
WASHINGTON 23 06 67 (NOTIZIA ASSOCIATED PRESS): IL PORTAVOCE DELLA CASA BIANCA ZIEGLER HA ANNUNCIATO CHE LA DATA DEL VIAGGIO DEL PRESIDENTE KENNEDY IN CINA È STATA PROVVISORIAMENTE FISSATA PER I PRIMI GIORNI DELL’APRILE 1968
NEW YORK TIMES
del 29 giugno 1967:
«Richard M. Nixon, attuale leader della più forte corrente del Partito Repubblicano e probabile candidato alle prossime elezioni presidenziali del prossimo anno, ha criticato violentemente, in un discorso ad Atlanta, la decisione di Kennedy di recarsi nella Repubblica Cinese, definendola “un atto eminentemente elettorale, che rischia di indebolire il nostro prestigio in Asia e otterrà l’effetto di farci guardare con sospetto e sfiducia dai nostri alleati e amici formosiani, coreani e vietnamiti in un momento in cui gli insuccessi della guerra contro i vietcong richiederebbero energiche e precise prese di posizione.»
«NON è esatto dire che quello di Kennedy fu un gesto puramente propagandistico. Certo, egli teneva un occhio alle elezioni del 1968, ma dal momento che non poteva essere rieletto per la terza volta, si può pensare che egli intendesse, al più, favorire il candidato del proprio partito, che fosse Humphrey, Johnson o Lindsay. Io penso che principalmente egli intendesse chiudere la propria duplice presidenza con un atto clamoroso e completamente nuovo, come rientrava nel suo stile, infrangendo vecchi e logori schemi e indicando ai suoi successori una nuova via politica per la politica dell’avvenire.»
da I miei tre anni con JFK,
pag. 386
WASHINGTON 16 08 67 (NOTIZIA UPI): IL PRESIDENTE KENNEDY HA ANNUNCIATO CHE È SUA INTENZIONE RECARSI A MOSCA L’ANNO PROSSIMO, DOPO IL VIAGGIO IN CINA. LA VISITA DOVREBBE AVVENIRE IN ESTATE.
CORRIERE DELLA SERA
del 22 ottobre 1967:
«Dopo gli entusiasmi iniziali e le approvazioni più o meno tiepide, una parte dell’opinione pubblica americana sta manifestando, come era prevedibile, le proprie perplessità e i propri dissensi sulla visita presidenziale in Cina. Si parte sempre dalla constatazione che i rapporti internazionali stanno attraversando una fase particolarmente calda. La morte di “Che” Guevara ha messo in subbuglio l’intera America Latina, e Fidel Castro ha pubblicamente accusato la CIA di assassinio a sangue freddo.
«Nel Medio Oriente prosegue la guerriglia palestinese contro Israele, appoggiata e finanziata dagli Stati arabi, nel Vietnam le truppe del generale Westmoreland stanno conoscendo una umiliante serie di sconfitte, e nella Cina stessa la situazione è tutt’altro che tranquilla, dopo la rivolta di larghi strati di popolazione operaia e contadina contro lo strapotere e gli abusi delle “guardie rosse” portate sulla cresta dell’onda della rivoluzione culturale. Se da una parte tutto questo suona d’incoraggiamento per il Presidente e per i suoi seguaci perché l’incontro coi cinesi si svolga e abbia un risultato positivo, dall’altra una vasta ala conservatrice, non escluso il nucleo centrale del Partito Repubblicano, ne traggono lo spunto per sconsigliare un viaggio che i più benevoli si limitano a definire “impopolare”.
«Gli ammonimenti vanno dagli slogan, al limite dell’isterismo, della John Birch e della Patrick Henry Society, ai comunicati approvati dalle Figlie della Rivoluzione Americana e dai Comitati locali Madri di Famiglia, alle dichiarazioni di politici oltranzisti dello stampo dei Wallace e dei Goldwater. A livello meno ufficiale, poi, tutta una serie di “avvertimenti” da parte di privati e di quelle piccole, fantomatiche, organizzazioni politiche o paramilitari che in America pullulano sotto lo sguardo benevolo delle autorità; avvertimenti nei quali non si sa se prevalga l’odio anticomunista o la genuina preoccupazione per il prestigio dell’America e per la sorte personale del Presidente.»
«IN quegli anni la Casa Bianca riceveva una media di seimila lettere la settimana, una buona metà delle quali dedicate alle critiche, agli insulti, non di rado alle minacce. La percentuale di queste ultime salì bruscamente nei mesi precedenti al viaggio di Kennedy. Ma non erano queste reazioni, abbastanza prevedibili, a preoccuparci. In quelle settimane tutti i nostri sensi erano tesi a percepire ciò che trapelava dall’interno del pianeta Cina. Sapevamo per certo che la rivoluzione culturale era tutt’altro che finita, che i contrasti fra Lin Piao e i fedelissimi di Mao rischiavano di sfociare da un momento all’altro in un conflitto aperto, infine che i cinesi stavano ammassando divisioni lungo l’Ussuri, a ridosso del confine russo. Alla Casa Bianca c’era una specie di comitato permanente capeggiato da Humphrey, Sorensen e qualche altro, sempre pronto, ogni volta che da Hong Kong pervenivano notizie preoccupanti, a tentare per l’ennesima volta di dissuadere il Presidente.»
Da I miei tre anni con JFK,
pag. 402.
WASHINGTON 14 12 67 (NOTIZIA UPI): DALLA CASA BIANCA SI APPRENDE CHE LA DATA DELLA PARTENZA DEL PRESIDENTE KENNEDY PER LA CINA È STATA FISSATA PER IL PROSSIMO 29 MARZO.
«IL fatto più grosso avvenne in febbraio, quando ormai mancavano poche settimane all’inizio del viaggio, e alla Casa Bianca c’era già aria di preparativi. Io facevo parte ormai dello staff presidenziale – erano passati ormai tre anni da quando ero subentrato a Dave Powers nel quadro dei rinnovamenti seguiti all’elezione – e avevo partecipato praticamente a tutti i viaggi di una qualche importanza. Ma questo era profondamente diverso, e la preparazione si articolava per ciascuno in tutta una serie di cose da preparare – rudimenti di lingua, usi e costumi, geografia, storia recente, abitudini alimentari, clima, eccetera – nulla di strano che richiedesse mesi.
«A metà febbraio circa, la stazione della CIA di Hong Kong, che in quei giorni teneva d’occhio la Cina rossa come non mai, ci riferì tramite la sede centrale di Washington una notizia insolita. Nel giro di pochi giorni si era avuta a Pechino tutta una serie di esecuzioni capitali. Decine di persone. Il fatto non rientrava nel panorama ormai consueto della rivoluzione culturale. Niente processi pubblici, clamorose autoaccuse, linciaggi più o meno morali come si era soliti fare nei confronti dei nemici del regime; ma pure e semplici condanne a morte, rapidamente e inflessibilmente eseguite, senza la minima pubblicità, quasi in segreto. Pochi giorni dopo giunse la notizia della improvvisa scomparsa dalla scena politica del maresciallo Lin Piao.
«La direzione della CIA incaricò l’agenzia di Hong Kong di indagare a fondo sulla questione. Ignoro ciò che avvenne in quei giorni alla frontiera, ma pare certo che alcuni dei “pendolari” cinesi che quotidianamente passano il confine per recarsi a Canton vennero riconosciuti per spie e passati per le armi. Probabilmente, quindi, quelle informazioni ci costarono alcune vite, ma alla fine della settimana potevamo ricostruire gli avvenimenti.
«Appariva sicuro, al 90 percento, che gli elementi giustiziati appartenevano a una organizzazione che, ostile alla politica “distensiva” di Mao e Ciu, aveva in programma di provocare gravi disordini durante la visita di Kennedy, fors’anche di attentare alla vita stessa del Presidente degli USA. Questo spiegava la reazione, spietata e decisa, di Mao appena scoperta la congiura. A torto o a ragione, Lin Piao fu accusato di essere in contatto con i capi del complotto o di esserne egli stesso uno degli ispiratori. Non tentò neppure di difendersi; prese immediatamente la via della fuga con la famiglia, e sembra che il suo aereo sia stato abbattuto dai Mig dell’Aeronautica cinese sui cieli della Mongolia.
«A questo punto, naturalmente, il “partito della rinuncia” riprese forza e sembrò per alcuni giorni che potesse avere partita vinta. Il fatto che la congiura fosse stata scoperta e annientata era evidentemente assai poco rassicurante di fronte al fatto, gravissimo, che la congiura fosse stata concepita e organizzata.
«Dopo una simile notizia, chi poteva garantirci che durante la permanenza in Cina non si sarebbe verificato alcun incidente? D’un tratto anche a me quel viaggio cominciò ad apparire come un salto nell’ignoto, come un tuffo nell’atmosfera di un pianeta remoto di cui poco o nulla si sapeva, ben più lontano e misterioso di quella Luna verso cui le astronavi Apollo si preparavano a lanciarsi. Per una settimana JFK fu solo; lo ricordo passare, cupo e aggrondato, le mani come sempre affondate nelle tasche della giacca, a lunghi passi nel corridoio che portava al suo studio privato.»
Da I miei tre anni con JFK,
pag. 409.
WASHINGTON 28 02 68 (NOTIZIA AP): IN UN DISCORSO ALLA TV IL PRESIDENTE KENNEDY HA DURAMENTE ATTACCATO I DIRIGENTI CINESI PER L’APPOGGIO SEMPRE PIÙ SCOPERTO AL NORD VIETNAM E AI GUERRIGLIERI VIETCONG. KENNEDY HA DICHIARATO CHE UNA SIMILE POLITICA AGGRESSIVA RISCHIA DI FAR NAUFRAGARE IL VERTICE FISSATO PER MARZO.
«Ormai sembrava che la decisione fosse stata presa. Il pretesto per rinviare la visita sine die era ottimo e plausibile: con l’offensiva del Tet i Vietcong avevano portato il conflitto nel sud-est asiatico a una fase particolarmente violenta, ed era verosimile che Il Presidente si rifiutasse di trattare coi capi cinesi finché i mortai comunisti bombardavano Saigon. Il pubblico non sapeva nulla di ciò che era avvenuto in Cina in febbraio, ma sembrava che lo avesse intuito, perché le lettere contenenti avvertimenti, suppliche e appelli appassionati si moltiplicarono in quei giorni, NON ANDARE era il tema ricorrente di tutti i grafomani, dalle massaie del Wisconsin ai neri di Harlem, dai viaggiatori di commercio di Kansas City alle maestre d’asilo di Cincinnati. E, contrariamente al solito, sembrava che anche queste lettere avessero un peso nell’entourage presidenziale. Ormai si attendeva solo l’annuncio ufficiale del rinvio.»
Da I miei tre anni con JFK,
pag. 412
NEW YORK TIMES del 7 marzo 1968:
«Dopo dieci giorni di dubbi ed esitazioni, principalmente legati all’acuirsi della tensione internazionale in conseguenza del precipitare della crisi vietnamita, il Presidente Kennedy ha finalmente e, dobbiamo dire, inaspettatamente sciolto le riserve da lui stesso poste alla visita ufficiale in Cina e ha annunciato che la partenza avverrà esattamente come previsto, il 29 marzo, dall’aeroporto militare di Andrews. Di qui, il quadrigetto presidenziale Air Force One lo porterà senza scalo a Guam, dove…»
«TUTTI noi ce lo aspettavamo, in fondo. E sapevamo perché, a onta di tutti i dubbi e di tutti i rischi, non poteva rinunciare. Sarebbe stato perfettamente giustificato di fronte a tutta la Nazione, non soltanto per le casalinghe isteriche e gli oltranzisti del Grand Old Party. Di fronte agli uomini della strada e ai governi alleati, la sua ripulsa sarebbe stata perfettamente giustificata. Ma non di fronte a noi. Noi della “mafia irlandese” sapevamo che se egli non andava, sarebbe stato unicamente per le nostre apprensioni sulla sua sorte fisica. Sarebbe stato, anche perfettamente motivato, un gesto pur sempre dettato dal timore. E questo certamente non rientrava nel suo stile.»
Da I miei tre anni con JFK,
pag. 415.
WASHINGTON 29 03 68 (NOTIZIA UPI): IL PRESIDENTE KENNEDY HA LASCIATO LA CASA BIANCA ALLE 10.15 A BORDO DI UN ELICOTTERO DELL’AIR FORCE, CON LA FIRST LADY E IL SUO SEGUITO, DIRETTO ALLA BASE MILITARE DI ANDREWS, DA DOVE PRENDERÀ IL VOLO PER LA CINA.
«ORMAI c’eravamo dentro fino al collo, e non potevamo fare altro che aspettare che il tempo passasse e sperare che passasse presto. Non nascondo che avevo paura, una paura fisica, non solo per il Presidente e Jackie, ma per tutti noi, e, lo ammetto, per me.
«Mentalmente passavo in rassegna tutti i luoghi comuni e i titoli isterici e grotteschi della stampa di destra sulla Cina Rossa, ricordi che risalivano ai tempi della guerra di Corea, accuse volgari e farneticanti che mi ero sempre rifiutato di prendere in seria considerazione.
«Comunque, avevo paura. E quella notte sull’Air Force One in volo tra Guam e Shangai, nella penombra in fondo alla carlinga, dietro l’alloggio presidenziale, O’Donnell e io avemmo un’interminabile sussurrante discussione, addolcita dal whisky, su quale sarebbe stata la prassi per il passaggio delle consegne nell’eventualità dell’assassinio del Presidente fuori dagli Stati Uniti, e in territorio potenzialmente nemico.»
Da I miei tre anni con JFK,
pag. 417.
PECHINO 31 03 68 (NOTIZIA UPI): DOPO LO SCALO A SHANGAI IL PRESIDENT E KENNEDY È ATTERRATO ALL’AEROPORTO DI PECHINO ALLE 10.30 LOCALI, ACCOLTO DAL PRIMO MINISTRO CIU EN LAI E DA UN PICCHETTO D’ONORE DELL’ESERCITO CINESE.
HUGH SIDEY PER LIFE, PARIS MATCH, EPOCA:
«All’aeroporto di Pechino il silenzio era assoluto. S’udivano soltanto le nostre voci e, di tanto in tanto, il rombo remoto di qualche autocarro. L’Air Force One ruppe il muro di silenzio che circondava l’esile figura di Ciu En Lai. Poi ancora silenzio. Dopo la discesa dell’aereo e i saluti si potevano sentire le voci di Kennedy e di sua moglie alla distanza di oltre 20 metri. L’immensa folla che ha sempre fatto ala al passaggio del Presidente nelle città di tutto il mondo qui era ridotta a poche persone, un po’ sconcertate e non meno solenne di noi.»
«DOPO l’accoglienza piuttosto gelida all’aeroporto, il quadro cominciò a scaldarsi e ad animarsi man mano che penetravamo nel cuore del segreto cinese. Permaneva su tutto il silenzio – in tutta Pechino il rumore più forte e frequente era il ronzio delle biciclette, ma nel corso della visita alla città e del banchetto al Palazzo dell’Assemblea del Popolo, sentii la paura e la tensione nervosa sfaldarsi lentamente, sciogliersi; andar giù insieme al liquore di riso. Sembrava una cosa naturale e semplice essere là, guardare quegli occhi a mandorla, quelle divise tutte uguali.
«Può sembrare inverosimile, ma quel pomeriggio, dopo il banchetto, provavo la sensazione di essere in Cina da sempre. Non riuscii a preoccuparmi neppure quando JFK scomparve alla nostra vista per più di due ore, per incontrarsi con Mao Tse-Tung, con varie ore di anticipo sul programma e nella sua residenza privata sulla Tien an Men, anziché al Palazzo dell’Assemblea del Popolo. Era la prima volta, credo, che nel corso di un viaggio ufficiale il Presidente restava isolato dal suo seguito per tutto quel tempo, faccia a faccia coi capi dell’altro Paese, senza telefoni, aiutanti militari e “linee calde” a disposizione. Come si capirà, il nostro principale assillo era la continuità dei poteri in caso di impedimento presidenziale, e la nostra croce era la possibilità che si verificasse una crisi internazionale (nessuno di noi usava la parola “guerra”) durante una più o meno temporanea incapacità del capo dell’Esecutivo.»
Da I miei tre anni con JFK,
pag. 421.
PECHINO 03 04 68 (NOTIZIA UPI): CONCLUSI I COLLOQUI UFFICIALI IL PRESIDENTE KENNEDY HA VISITATO OGGI I PRINCIPALI LUOGHI DELLA CAPITALE E DEI DINTORNI: LA CITTÀ PROIBITA, LE TOMBE DEI MING, LA GRANDE MURAGLIA.
«ERAVAMO quasi alla fine del quarto giorno. Mancavano meno di 24 ore alla partenza e tutti i punti scabrosi del programma sembravano superati. I giornali non hanno mai parlato del panico che si diffuse tra le persone del seguito quando, il pomeriggio del 4 aprile, JFK scomparve per quasi mezza giornata, senza che i gentili, premurosissimi interpreti cinesi fossero in grado di dirci dov’era. Lo aspettammo invano per ore all’ingresso della Guest House nel Parco dell’Abisso di Giada, dov’era la nostra residenza. Notai subito che il sergente maggiore McNally, meglio conosciuto come “l’uomo della valigetta”, perché incaricato di seguire ovunque il Presidente con la borsa contenente i piani di rappresaglia in caso di attacco nucleare contro gli USA, era rimasto con noi. Era la seconda volta che Kennedy si separava dalla valigetta in Cina. La prima volta era stato durante l’incontro con Mao. Ma nessun altro incontro importante era previsto.
«Stava venendo sera. La maggior parte di noi non osava parlare o scherzare. Jackie si era chiusa nella sua camera. Mi consultai con O’Donnell e con il generale Cligton, addetto militare alla Presidenza, sul modo di metterci in contatto con Humphrey e il Congresso nel caso stesse per succedere qualcosa di grosso. Senza la Situation Room e senza la complessa apparecchiatura che ci accompagnava solitamente in ogni viaggio, ci sentivamo perduti. Forse fu panico irragionevole, non sufficientemente motivato. Ma so che il nostro sollievo, quando una limousine nera scaricò nel viale ormai buio un Kennedy, insolitamente pensieroso e tutt’altro che conscio della nostra apprensione, fu semplicemente indicibile. Soltanto durante il viaggio di ritorno, a bordo dell’Air Force One, venni a sapere che il personaggio con il quale quel pomeriggio JFK aveva avuto un colloquio così lungo e, certo, tutt’altro che protocollare, era il Presidente del Vietnam del Nord, il vecchio Ho Chi Min.»
Da I miei tre anni con JFK,
pag. 428.
PECHINO 05 04 68 (NOTIZIA AP): L’AEREO DEL PRESIDENTE KENNEDY HA LASCIATO L’AEROPORTO DI PECHINO ALLE 14.45 LOCALI, DIRETTO VERSO GLI STATI UNITI.
NEW YORK TIMES del 5 aprile 1968:
IN PATRIA SI PROFILA UN TRIONFO PER JFK
«Sebbene non sia stato ancora diffuso il testo del comunicato congiunto cino-americano, atteso ormai di ora in ora, pare legittimo attribuire un carattere decisamente positivo ai risultati degli incontri al vertice sostenuti in questi giorni da JFK. Mentre l’America è ancora scossa dalle immagini televisive trasmesse via satellite, che ci hanno mostrato una società decisamente diversa dalla nostra, per certi versi arcaica, ma certo più semplice, più ordinata, assai meno congestionata e inquinata, il “cinauta” John F. Kennedy sta sorvolando il Pacifico di ritorno da quello che, sotto tutti gli aspetti, può definirsi il viaggio più lungo compiuto da un Presidente americano. Non ci aspettiamo certo che egli porti nella sua borsa una formula magica per risolvere le attuali gravissime controversie internazionali, ma siamo certi che questa visita non potrà non contribuire in maniera determinante alla causa della pace e della distensione…».
ANDREWS 06 04 68 (NOTIZIA UPI): ORE 05.24 – SEI COLPI DI PISTOLA SONO STATI ESPLOSI CONTRO L’AUTO DEL PRESIDENTE KENNEDY ALLA BASE MILITARE DI ANDREWS A DIECI MINUTI DALL’ATTERRAGGIO. IL PRESIDENTE, COLPITO ALLA TESTA E AL TORACE, È GRAVISSIMO. L’ATTENTATO È STATO COMPIUTO DURANTE IL TRASFERIMENTO DALL’AIR FORCE ONE ALL’ELICOTTERO PRESIDENZIALE.
ANDREWS 06 04 68 (NOTIZIA UPI): ORE 05.30 – IL PRESIDENTE, TRASPORTATO ALL’OSPEDALE MILITARE DELLA BASE, È IN CONDIZIONI DISPERATE. L’ATTENTATORE È STATO ARRESTATO. È UN AVIERE DI STANZA ALLA BASE DI NOME CHARLES HOWARD GRAY. HA SPARATO SUL PRESIDENTE CON LA SUA PISTOLA D’ORDINANZA.
ANDREWS 06 04 68 (NOTIZIA UPI): ORE 05.47 – QUATTRO CHIRURGHI MILITARI STANNO TENTANDO DI SALVARE LA VITA DEL PRESIDENTE. L’ATTENTATORE C.H. GRAY È STATO FERITO A MORTE DAL COMANDANTE DELLA PROPRIA COMPAGNIA CAPITANO MARK STOUGHTON DURANTE UN TENTATIVO DI FUGA; IL CAPITANO È AGLI ARRESTI.
ANDREWS 06 04 68 (NOTIZIA UPI): ORE 06.00 UFFICIALE: KENNEDY MORTO RIPETESI KENNEDY MORTO RIPETESI KENNEDY MORTO.
Pierfrancesco Prosperi
Nato ad Arezzo nel 1945 è uno scrittore molto prolifico, che si è sempre diviso fra narrativa e fumetti. Esordisce su "Oltre il cielo" nel 1960, specializzandosi prevalentemente in sf e soprattutto nel genere ucronico. Trattò l'argomento dell'omicidio Kennedy in chiave ucronica e fantascientifica, nel romanzo "Seppelliamo re John" (1973), con racconti e con il saggio "La serie maledetta" (1980), dedicato a tutti i 4 presidenti americani assassinati.
Interessante–mi ricorda il libro, THEN EVERYTHING HAPPENED, da Jeff Greenfield .