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DAD OF LIGHT: FANTASCIENZA CHE NON LO È PIÙ

DAD OF LIGHT: FANTASCIENZA CHE NON LO È PIÙ

Diciamocelo subito, non sono qui per dissertare se sia più giusto o sbagliato, più sano o malato, trascorrere il proprio tempo comunicando con i propri simili via internet o scambiarsi maree di sciocchezze in un bar, o dalla parrucchiera.

Parliamo qui di una serie che sarebbe stata di fantascienza solo vent’anni fa e che oggi è solido verismo. Ma anche di una narrazione che contiene molti elementi di interesse e che rischia di passare inosservata presso i fan della fantascienza perché parrebbe parlare d’altro.

Si tratta di Final Fantasy XIV: Dad of Light, produzione nipponica di Netflix con un evidente zampino della Sony, dato che si fa specificamente riferimento ai giochi di ruolo della Square-Enix e in particolare al loro prodotto per il gioco di ruolo online, citato nel titolo.

Andiamo con ordine.

La storia riguarda un ragazzo e il suo rapporto col padre. Questo è inizialmente buono e ha il suo culmine quando il padre, vedendo il figlio annoiato, gli compra uno dei primi titoli della serie Final Fantasy, ancora su qualche preistorica consolle.

Le cose poi si deteriorano; sempre più chiuso, introverso come solo un giapponese sa essere e preso dal lavoro, il padre si allontana da lui. Akio, così si chiama il figlio, è ormai un adolescente avanzato che già lavora negli uffici commerciali di una grande azienda. Rimane interdetto quando il padre decide di ritirarsi anzitempo in una sorta di prepensionamento, rinunciando al coronamento di una carriera brillante, senza voler dire a nessuno, neanche alla moglie, per quale motivo lo fa.

Da questo episodio Akio capisce quanto sia distante da suo padre. Non ha il coraggio di affrontarlo apertamente su quasi nessun argomento, figuriamoci su questa scelta che, a quanto pare, per un giapponese è qualcosa di praticamente inconcepibile (un italiano non si sarebbe neanche posto il problema…). Decide così di coinvolgere il padre nelle atmosfere di Final Fantasy con il loro gioco online, ove potrà abbordarlo sotto mentite spoglie e cercare di comunicare con lui e magari strappargli qualcosa sul suo segreto (che ovviamente non vi rivelerò).

Qui si evidenzia uno degli elementi di interesse di questa produzione, ma per comprenderlo bisogna aprire una parentesi e raccontare che già da alcuni anni ci sono persone che realizzano film d’animazione utilizzando come base i videogiochi, in particolare da The Sims. Dato che in molti di essi si può assumere a vario titolo il controllo di personaggi virtuali, li si usa per girare le scene necessarie, poi le si monta aggiungendo un doppiaggio e il gioco è fatto.

I giochi delle ultimissime generazioni, tuttavia, vanno ben oltre ai risultati ottenuti in questo modo dai dilettanti precedentemente.

Per cominciare, la grafica del gioco è tale che per questo film non è stato necessario usare mega computer grafici come in altre produzioni che affrontavano tempi analoghi (ad esempio Kiss me First, sempre di Netflix). Da quando Akio regala al padre una copia di Final Fantasy XIV, il film si svolge per metà nel mondo reale e per metà dentro il gioco, dove Aiko interagisce con lui e con un gruppo di altri simpatici giocatori. Per far questo, però, è stata usata unicamente la console e le dinamiche del gioco stesso che permettono di far recitare i personaggi in modo abbastanza convincente e anche di gestire le inquadrature del gioco. Se i programmatori della Square sono intervenuti, lo hanno fatto molto poco.

Tra parentesi, il serial, composto da sette brevi puntate, ha una sottotraccia che cito solo perché viene inserita senza mai esplicitarla veramente. L’attore che recita la parte del protagonista è un ragazzo dai tratti molto delicati e decisamente poco virili. Akio, non solo è evidentemente insensibile al fascino femminile ma per presentarsi al padre sceglie un avatar femmina. Questo crea una situazione che in un film occidentale avrebbe offerto il destro per infinite allusioni e situazioni imbarazzanti, invece in questa produzione rimane lì in sospeso, quasi come un mistero inesprimibile. Una delle possibili spiegazioni di ciò è che in questo modo col protagonista si può identificare anche il vastissimo popolo delle videogiocatrici.

Chiusa la parentesi, per gli appassionati di Final Fantasy è una produzione imperdibile perché richiama esperienze che questi giocatori hanno vissuto in prima persona, in particolare in quel sottile mescolarsi tra la propria vita reale e quella dentro il gioco; che i video giocatori, soprattutto quelli ruolistici, trovino nel gioco risorse e spunti di riflessione che poi reinvestiranno nella vita reale, è un dato per essi incontrovertibile. E quando Aiko vive momenti topici della sua storia con il sottofondo delle meravigliose colonne sonore di Final Fantasy, il gioco è fatto.

Non credo sia sfuggito a nessuno che questa è in gran parte un’operazione principalmente pubblicitaria. La Square ha avuto, in questi anni, grosse difficoltà a rendere proficuo il suo GDR online, tanto che è stato anche tolto il canone di abbonamento annuale che inizialmente occorreva pagare per accedere a questo mondo condiviso. Un gioco e un mondo che hanno subito diverse ridefinizioni, in cerca della formula che avrebbe attratto frotte di giocatori, ma credo senza il successo sperato. A riprova di questo, Netflix ha messo in onda un ottavo episodio di Dad of Light che è irrilevante dal punto di vista della trama ma che illustra alcune delle nuove finalità del gioco, ad esempio quella di potersi  sposare tra giocatori (sic!), con la cerimonia officiata da un Moguri, uno dei simpatici animaletti della saga.

Il mondo di Final Fantasy, comunque, è immensamente degno di attenzione, perché rappresenta una produzione ormai vastissima di giochi e film d’animazione anche di alto livello (graficamente forse tra i più alti). Ci porta in dimensioni narrative che uniscono il fantasy alla fantascienza in un modo che ha fatto scuola, miscelando influssi orientali e occidentali, compresa la tradizione giapponese dei grandi mostri di cui Godzilla è il nume tutelare. E questa piccola produzione che rende omaggio a questo mondo non può, quindi, che essere vista con simpatia. Per tutti gli altri, invece, c’è un serial che permette come poche altri, in modo leggero, garbato, divertente e a tratti commovente, di comprendere il modo di vivere e di pensare del giapponese moderno e di riflettere, finalmente, in un modo non paranoico o bacchettone, sulla passione che sta prendendo molti abitanti di questo pianeta per un nuovo modo di comunicare tra loro.

Giorgio Sangiorgi
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Sangiorgi lavora e vive a Bologna. Dopo un esordio nel campo del fumetto, ha vinto alcuni premi letterari locali per poi diventare uno degli autori e dei saggisti della Perseo Libri Il suo libro "La foresta dei sogni perduti" ha avuto un buon successo di pubblico. Ora pubblica quasi esclusivamente in digitale e alcuni suoi racconti sono stati tradotti e pubblicati in Francia e Spagna.

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