CENTURIA – IL RACCONTO DELLA DOMENICA
Il Racconto della Domenica
t.c.b.
Il comandante della Columbus, un’astronave della Flotta Intergalattica Terrestre, si svegliò di colpo, interrompendo un sogno inquietante che da un po’ di tempo arrivava a turbarle i rari momenti di riposo. Si alzò e diede un’occhiata di striscio allo specchio, cominciando pensierosa ad allacciarsi il reggiseno e a rimettersi l’uniforme. Tornò a riflettersi veloce per controllare che tutto fosse in ordine e, mentre finiva di raccogliere i lunghi capelli con gesto meccanico, rispose alla chiamata che compariva sull’olovisore. Il presidente del Consiglio Terrestre si affacciò col volto rasato di fresco e sorridente. “Ahi!” pensò il comandante, “quando il presidente sorride sono in arrivo guai!”
Si dispose stoica a fare altrettanto.
«Buongiorno, comandante Veradiem. Come sta?»
«Non c’è male, presidente. Grazie.»
«Le dico in breve, i dettagli li avrà sul suo computer personale entro breve. I colloqui con l’ambasciatore di Centuria non hanno ancora dato esiti di rilievo. Anzi, sono in perfetto stallo. L’ambasciatore si ostina con la sua richiesta assurda e non vuole fornire spiegazioni. Abbiamo tentato di fargli capire che agire nel senso in cui desidera sarebbe un oltraggio alla politica di pace che ormai da secoli c’è sulla Terra, ma la sua risposta è irrevocabile: o la quota, o la guerra. Capirà, comandante, non è facile comunicare con qualcuno che, dopo uno stretto isolamento di otto secoli, torna sulla Terra chiedendo qualcosa di inammissibile, ma sembra che il concetto di schiavitù sia ancora vivo nella mente di questi centuriani.»
«Mmh…»
«Lei è la nostra ultima carta, è l’unica persona ad aver mai avuto dei colloqui con l’ammiraglio Alachi Andreas. Abbiamo concordato un appuntamento con lui e le chiediamo di raggiungerlo sull’ammiraglia di cui è a capo. Lo scopo è una missione di pace, è ovvio. Lo convinca che qui le cose funzionano in modo diverso.»
«A quando il rendez vouz?»
«Per dopodomani. Alle dieci, ora standard.»
Chiusa la comunicazione, Veradiem ripensò ai contatti con quel graduato centuriano avuti un paio d’anni prima. Si erano trovati in difficoltà con il motore a curvatura e avevano chiesto aiuto a Centuria. Non c’era stato il modo di fare altrimenti, era l’unico pianeta abitato nel quadrante in cui stavano navigando e con una tecnologia in grado di riparare il guasto. Se lo ricordava sullo schermo della plancia di comando come un essere burbero e antipatico, dispotico e minaccioso. Ora il loro ambasciatore, di punto in bianco, era sbarcato sulla Terra e stava pretendendo una quota di popolazione femminile e maschile da esportare su Centuria a tempo indeterminato, e per di più senza fornire alcun motivo.
Dei centuriani si sapeva pochissimo, non avevano mai permesso alla Terra di mettersi in contatto con loro. Erano umani, discendenti di una flotta scientifico-militare partita circa ottocento anni prima e insediatasi su Centuria, ai confini della galassia. Le ultime notizie risalivano ancora a quando il pianeta era stato terraformato e in grado di rendersi indipendente. Da quel momento non se ne era saputo più nulla, qualsiasi tentativo di comunicazione nel corso del tempo era stato malamente rintuzzato.
Veradiem pensò al connubio scientifico-militare. Probabile che si fossero trasformati in una società gerarchica di alta tecnologia bellica; storse le labbra.
Il computer terminò di calcolare le statistiche demografiche progressive in base al numero dei pionieri dell’antica flotta ma, anche tenendo conto di variabili negative, mostrava una supposta popolazione attuale di tutto rispetto che non giustificava la loro richiesta di terrestri.
Raggiunse la plancia e diede le coordinate al comandante in seconda che la guardò sorpreso: «Signor Omega, ordini diretti del Consiglio. Raggiungiamo l’ammiraglia centuriana, dobbiamo scongiurare una guerra. Motori a curvatura, l’appuntamento è per dopodomani alle dieci, ora standard.»
Il comandante rispose con un’alzata di spalle alla muta domanda del sottoposto. Un istante dopo l’attraversò fulminante il ricordo di quel suo sogno ricorrente, in cui il laser di un’astronave nemica penetrava nella Columbus squartandola a metà.
Sullo schermo principale del ponte di comando apparve la flotta centuriana in formazione concentrica. Nel mezzo stava l’ammiraglia, maestosa e cupa nelle architetture angolose, così diverse dalle linee fluide dell’astronave terrestre in avvicinamento, morbide e compatte.
«Trenta secondi al teletrasporto, comandante. E in bocca al lupo!» gracchiò il tecnico, salutandola sull’attenti. Veradiem si ritrovò sull’ammiraglia, accolta da tre androidi che la introdussero all’ufficiale in seconda.
«L’ammiraglio si scusa di non poterla accogliere di persona» recitò meccanico l’ufficiale centuriano, ma al comandante Veradiem non era sfuggito il moto di sorpresa negli occhi dell’uomo quando lei aveva oltrepassato le paratie dell’abitacolo. «La prega di perdonarlo e la invita a cena per stasera, alle otto. In tenuta borghese. Nel frattempo è libera di girare dove desidera, i tre androidi sono al suo servizio.»
Detto questo, tornò con lo sguardo alla scrivania e lei si sentì congedata. “In ostaggio di tre androidi e disattesa fino a stasera. E si vogliono abiti civili, per di più! Ma chi si crede, questo Andreas?!” pensava.
Afferrò indispettita il comunicatore vocale e chiese al tecnico del teletrasporto di mandarle un abito da sera.
«Tutto a posto, comandante?» le domandò dubbioso.
«Comunichi all’ufficiale in seconda che ne avrò fino a notte tarda.»
Solo anni di dura disciplina permisero all’ammiraglio di nascondere il moto di stupore quando Veradiem varcò la porta della sala da pranzo. Quel moto che lei si rendeva conto di aver suscitato per tutto il giorno, mentre gironzolava qua e là per l’astronave e di cui non capiva il motivo.
«Sulla Terra c’è ancora l’uso di salutarsi dandosi la mano, comandante Jessica Veradiem?» esordì lui, avvicinandosi. Il comandante lo guardò negli occhi valutandolo e rispose al saluto con un sorriso formale, nonostante il balzo al cuore.
«Certamente, ammiraglio Alachi Andreas, non abbiamo mai perso l’uso delle buone maniere.»
«Si accomodi» e le accompagnò la sedia. «Posso offrirle del vino centuriano?»
«Più tardi, ora vorrei discutere subito delle vostre richieste. Lei si renderà conto…» esordì Veradiem troppo in fretta, sconcertata dalla gentilezza dell’ammiraglio. Si era aspettata i toni duri del loro primo incontro, avvenuto attraverso gli schermi.
L’alto ufficiale la bloccò: «Avrei preferito rimandare a dopo ogni discussione» replicò con un gesto secco che smentiva il sorriso e i modi di pochi istanti prima. «Non sono richieste. Sono ordini, di un qualcosa che ci spetta come membri della razza umana.».
«Sono stata informata che il vostro ambasciatore non ha voluto dare alcuna spiegazione alla vostra richiesta, mi permetta il termine perché non saprei come altro chiamarla. Non siamo interessati al conflitto e vorremmo capire che cosa può indurre Centuria, dopo secoli, a riprendere i contatti con la Terra, contatti che sono sempre stati categoricamente rifiutati da voi. La informo che viviamo in un equilibrio di pace duraturo e che intendiamo mantenerlo. E per fare questo ho bisogno della sua collaborazione.»
«Sono al corrente della vostra politica di pace» si accigliò l’ammiraglio, «ma la questione è troppo urgente per noi e non ammettiamo un rifiuto.»
«È troppo poco dirle che nel sistema pacifico che noi conduciamo ogni essere umano è libero di decidere per sé e non può essere costretto a ciò che non vuole o non aspira?»
«Comandante, nel nostro sistema ogni individuo serve per una causa maggiore, cioè serve Centuria, indipendentemente da ciò che vuole o desidera, e lo fa con la massima diligenza e senza mai discutere» rispose deciso Andreas.
«Ammiraglio, posso permettermi di farle notare che siete voi ad aver bisogno di noi, e non viceversa?» Veradiem vide la mascella dell’alto ufficiale contrarsi e sentì affiorare una punta di soddisfazione.
La prepotenza di quell’uomo la indisponeva e le rendeva la lingua affilata.
In quel momento entrò un androide, richiedeva con urgenza la presenza dell’ufficiale in plancia. Andreas si alzò e con un gesto cortese la invitò a seguirlo: «Si è fatto tardi, comandante, e non voglio abusare del suo tempo. Ci aggiorniamo a domani. Sempre qui, a tavola. Mi perdoni la serata malriuscita.».
Il comandante tornò sulla sua astronave con un diavolo per capello e a stomaco vuoto. Si sentiva divisa tra il disgusto per l’arroganza di quell’uomo e un’attrazione misteriosa che, suo malgrado, non riusciva a nascondersi. Quello di cui non era al corrente era che la presenza di forti e simili sentimenti combattuti li aveva anche l’ammiraglio mentre risaliva il ponte di comando.
Poco dopo ricevette una chiamata da Andreas: «Comandante, mi scuso per l’inattesa interruzione di poco fa. Farò in modo che domani sera niente possa disturbare il nostro colloquio. Appuntamento alle otto, ora standard.». Alla vista dell’ufficiale ebbe un tuffo al cuore. Si diresse furiosa al ponte ologrammi e per un paio d’ore combatté all’ultimo sangue in una battaglia simulata di corsari. Anni di astinenza forzata in lunghi viaggi esplorativi ancora non le avevano insegnato a far tacere emozioni e sentimenti. Tirarli fuori per chi, poi, per una macchina da guerra?
Man mano che le otto si avvicinavano il comandante Veradiem malediceva se stessa: sentiva che quell’uomo in qualche modo nascosto la stava chiamando, al punto da non capire se l’origine dell’attrazione risiedesse in lei o in lui. Non poteva mettere le emozioni in mezzo a una faccenda di stato. Restare vigile e imparziale era l’imperativo che le avrebbe permesso di trasformarsi in una lama spietata, se fosse stato il caso. Quell’uomo rappresentava tutto ciò contro cui si era battuta da sempre: un sistema offensivo e coercitivo che decretava l’annullamento della volontà umana e l’evoluzione dell’individuo.
Si avviò al ponte teletrasporto divisa tra un senso di vuoto allo stomaco e il desiderio assordante che fosse già finito tutto. Lungo i corridoi di raccordo il suo equipaggio la salutava, chi compiaciuto chi ammutolito; non accadeva spesso di vedere il comandante in abiti borghesi. “Anche questa storia dell’abito da sera!” stizziva Veradiem. “Sua Eccellenza lo desidera, che non sia mai che non le si possa dire di no!”
Quando attraversò la porta della saletta da pranzo, l’ammiraglio le venne incontro compìto. Lei lasciò di nuovo che le accomodasse la sedia.
«Siamo solo noi, ammiraglio?»
«Ho ritenuto che, visto il carattere riservato delle informazioni che ci scambieremo, fosse auspicabile la più completa distensione» rispose l’uomo, senza guardarla. «Un po’ di vino centuriano?»
Il cliché della sera prima andava ripetendosi, e si trovò immersa in una sensazione di già vissuto che la turbò.
«Vogliamo brindare, comandante?»
«A che cosa, ammiraglio?»
«Alla ratifica di quella che lei ha definito la nostra richiesta, naturalmente.»
«Allora non mi sono spiegata bene, signore…» ribatté lei con un gesto infastidito.
«Comandante, mi ascolti» la bloccò subito lui. «Quando la missione originaria atterrò su Centuria e si dispose a colonizzare il pianeta, buona parte della popolazione iniziale cominciò a perdere la fertilità; le donne non riuscivano a portare a termine la gravidanza, gli uomini andavano perdendo interesse per la sfera sessuale. Per mantenere la natalità entro un minimo necessario fummo costretti a ricorrere alla genetica e incrementare la popolazione con cloni ricavati dal Dna originale dei pionieri. Ma qualcosa si è corrotto anche nel Dna di questi cloni e ormai quasi tutti i feti nascono deformi, senza contare che la popolazione ha bisogno di essere diversificata dopo tanti incroci con le stesse matrici. Oggi si conta sulle dita chi può vantare condizioni quasi normali, per quello che viene concepita la normalità da un terrestre.»
Il comandante lo guardava esterrefatta. Una raffica di domande le uscì di bocca.
«Pochissimi? Condizioni quasi normali? Ma perché?»
«Anche una breve esposizione alle condizioni ambientali del pianeta provoca sterilità. Le mie soste su Centuria non superano mai i pochi giorni. Per il resto sono sempre nello spazio.»
«Quindi lei è quasi normale, ammiraglio?» ribatté Jessica, sottolineando il quasi normale con un tono di voce leggermente abbassato.
«Sì, comandante, sono quasi normale, se normalità significa nascere su un’astronave e doverci restare per sempre. Ci occorrono uomini e donne per svecchiare i Dna della popolazione.»
«Capisco» cominciò la donna, alzando la testa verso l’uomo che, girandole alle spalle, le aveva afferrato una ciocca dei lunghi capelli.
«Lei ha degli splendenti capelli ramati, comandante. Si dice così? È la prima volta che li vedo. Avrà notato gli sguardi incuriositi del mio equipaggio.»
«Sì, l’ho notato» gli rispose, continuando imperterrita a parlare evitando di dare attenzione alle sue mani perché si sentiva tremare. «Le dicevo, sono sicura che potremo trovare una soluzione soddisfacente per entrambe le parti…»
«Comandante, posso chiederle di togliersi l’abito?»
La donna si drizzò all’istante in piedi, scandalizzata.
«Ammiraglio, come si permette…»
L’uomo si sporse in avanti fulmineo e la baciò sulle labbra, chiudendole la bocca.
Stringendola, sentì che la resistenza della donna veniva sempre meno e quando le mani di lei gli avvolsero la testa con una leggerezza elegante che mai aveva sognato potesse esistere, lui allentò la stretta. La prese in braccio guardandola negli occhi e l’adagiò sul divano che correva contro le pareti, slacciando lentamente la lunga fila di piccoli bottoni che le correvano lungo un fianco. La donna coglieva le mani dell’uomo muoversi entro leggi che non avevano mai conosciuto, eppure scritte nella carne. Il seno sbocciò dagli indumenti, morbido e piccolo, e quando vi immerse il viso lei lanciò un grido soffocato. Lo prese per un sì, le strappò con dolcezza il resto dell’abito, le tolse il piccolo slip, immerse una mano tra le sue gambe e sentì l’umore aperto e struggente del desiderio di lei. Sentì una virilità nuova espandersi nel suo corpo, un desiderio insopportabile di possederla, e prese a svestirsi con lenti movimenti assaporando la vista di lei che si protendeva in avanti e gli sfiorava il membro turgido, sollevando la pelle e ritraendola mettendo a nudo il glande; glielo baciava, tornava a coprirlo, lo solleticava con la lingua finché non seppe più resistere e glielo avvolse con l’intera bocca. Sentì la gola di lei accoglierlo fino in fondo, ritrarsi, tornare ad avvolgerlo, ogni volta più in fondo, ogni volta in un’immersione più lunga e quando sembrava che il suo viso fosse vicino all’asfissia lei tornava ad allontanarsi senza mai smettere di inumidirlo, con piccoli movimenti laterali che lo lasciavano immobile e senza fiato. Mentre le dita della donna presero a sfiorarlo da dietro seguendo la linea che portava ai testicoli, la spinse piano contro il divano allargandole le gambe e la penetrò, scivolando dentro senza sforzo. Sentiva le pareti di lei stringersi intorno a lui in movimenti regolari dilatandosi quando scendeva, chiudendosi quando risaliva, in scatti rapidi o lunghi a seconda di quanto lui si muoveva.
Era come battersi nella più grande delle battaglie, e capì che perdere era vincere, vincere era perdere, che non c’era più senso nella vittoria o nella sconfitta. La sua mente scendeva in un abisso sconosciuto e risaliva a un cielo sfolgorante, il suo corpo penetrava dentro di lei e riusciva rigenerato. Persero ogni nozione di tempo.
Il silenzio regnava lungo le file digradanti del semicerchio dove sedeva il Consiglio terrestre. Lei stava in basso, in piedi in mezzo al salone, in attesa.
«Comandante Veradiem, l’ambasciatore centuriano ci ha appena comunicato in via ufficiale che la popolazione di Centuria ha iniziato il trasferimento sulla Terra. Stanno mettendo a punto un sistema che permetterà di governare Centuria con i soli androidi. Nel frattempo i nostri laboratori stanno dando esiti molto promettenti: pare che le cavie rispondano benissimo e che stiano autorigenerando il loro ciclo riproduttivo semplicemente trasferendosi qui, sulla Terra. Secondo i nostri calcoli la popolazione residua di Centuria sarà in grado di uscire dalla sterilità e dalle disfunzioni… ehm… sessuali di cui soffre nell’arco di un anno. Noi tutti desideriamo ringraziarla per il buon esito della missione. Per i meriti conseguiti vogliamo conferirle bla bla bla…»
La voce del presidente andava facendosi lontana, le gambe di Veradiem fremevano impazienti.
Là fuori, appena dopo il portone d’entrata, l’attendevano un congedo di cinquantatré giorni e un ammiraglio in borghese pronto ad accompagnarla per una lunga vacanza in Europa. Lo vide attraverso i vetri darsi una pacca sulla testa. L’ammiraglio stava riflettendo: “Tutta mitologia, mi ero sempre detto… mi sa che gli antichi siano da rivalutare, avevo sempre creduto che l’amore fosse una favola dei tempi andati.”
Questo racconto è World © di Tea C. Blanc. All rights reserved
Nell’immagine, una tavola del fumettista statunitense Frank R. Paul
Tea C. Blanc
È comasca. Vive un po' a Como, un po' in Svizzera. Collabora ad alcune riviste, sia cartacee che digitali. Ha pubblicato un racconto di genere fantastico con Edizioni Dell’Angelo; il romanzo dagli spunti fantascientifici “Mondotempo” (Watson Edizioni, collana Andromeda). Ha partecipato a varie antologie di autori vari con racconti o saggi. Finalista a vari premi, tra cui Premio Urania nel 2024.