Venezia 79, 90 anni di una mostra cinematografica tra luci e ombre
Venezia 79, 90 anni di attività.
Il lungo percorso di un evento come la Biennale Cinema di Venezia è stato ricco di sorprese (artistiche) ma anche delusioni (organizzative). Ogni anno qualcosa di nuovo, a volte provocatorio, a volte mondano, a volte altro… Eppure in questo ricco mix che ha visto la costruzione del Palazzo del cinema (ma non l’edificazione di quello nuovo…), la copertura e poi riconversione del Paladarsena, la realizzazione del Palabiennale (primo temporaneo e poi fisso), l’inglobamento multiforme e trasformista del vecchio Casinò del Lido e ancora gli spazi di proiezione (ed esposizione) aggiuntivi del grande giardino antistante per soddisfare le necessità di un Mercato che in realtà non è mai decollato (nonostante il supporto di testate professionali come Variety con i suoi daily…) proponendo invece quella veneziana come importante vetrina ad uso e consumo di operatori ed esercenti italiani del settore anche considerando l’interessante sezione di Venice Immersive.
Quest’anno dopo le interessanti esperienze di biglietteria/prenotazione elettronica sotto la pandemia del Covid il passaggio dalla piattaforma digitale di Boxol a quella (teoricamente più estesa) di Vivaticket, con un sistema di prenotazione di due giorni in advance, avrebbe dovuto sancire un passo definitivo nella gestione/modernizzazione della logistica organizzativa della Mostra.
Peccato che invece alla prima (ma in parte anche alla seconda) prova di collaudo effettivo il sistema sia andato in tilt confermando agli utenti (se mai ce ne fosse stato bisogno) che eravamo a Venezia, mica a Cannes o Berlino…
Al di là dello scambio di accuse reciproche (che poco interessano a chi alla mostra viene per lavorare e tempo da perdere non ne ha) fra le parti resta il sospetto che la responsabilità sia più dalla parte dell’organizzazione/gestione interna che di quella esterna di una piattaforma che per esperienza e attitudine gestisce concerti internazionali dove gli utenti che assaltano il sito all’apertura delle prenotazioni non sono qualche decina di migliaia bensì centinaia.
Discorso diverso invece per la parte artistica dove Barbera, seppur tra luce e ombra, dimostra ancora una volta una bella capacità di scelta dei titoli in programma tra cui alcuni che (come per gli anni passati) corrono il rischio di essere papabili per l’Oscar.
Va detto che nelle prime giornate causa il disservizio di cui sopra ma anche la scarsa lungimiranza di chi aprendo certi percorsi a tutto il pubblico pagante ha di fatto escluso quasi completamente la possibilità di vedere (per giornalisti e operatori professionali) le sezioni Orizzonti, Giornate degli Autori e Settimana Internazionale della Critica.
Poco male, mi sono concentrato sul concorso dove, a parte il mediocre ‘Princess’, le piacevoli sorprese non sono mancate a partire dal visionario ‘White Noise’, una bella riflessione esistenziale sulle paure che popolano il nostro quotidiano e che di fatto come suggerisce il titolo diventano ‘rumori’ di fondo, ora fastidiosi ora folgoranti ma sempre insidiosi. Noah Baumbach gioca (grazie anche ad un ottimo e affiatato cast) a provocare visivamente ed emotivamente lo spettatore spaziando tra il dramma e l’horror con suggestioni fantascientifiche apocalittiche che (a tratti) mi hanno ricordato la miniserie bonelliana di ‘Caravan’.
Suggestioni fantascientifiche concludono anche l’eccellente ‘TÁR’ di Todd Field, un regista assai parco nella sua eccellente filmografia che vede una Cate Blanchett – in odore di Oscar – impersonare magistralmente una grande e controversa direttrice d’orchestra (figura mediata da tre altrettante professioniste del palco) che proprio nella scena finale dirige l’orchestra di una convention sci-fi alla presenza di un pubblico di appassionati tutti in costume.
Incrocio surreale, a tratti horror-thriller, la personale rivisitazione esistenziale di ‘BARDO, falsa cronica de una cuantas verdades’ che il regista messicano Alejandro González Iñárritu ha presentato in un gioco narrativo felliniano sospeso tra ‘Amarcord’ ma soprattutto ‘8 e mezzo’. Con un montaggio efficace la pellicola mostra, forse con una lunghezza eccessiva, l’alternarsi di immagini di grande potenza espressiva (anche se a volte macchiettistica) che coinvolgono e a tratti travolgono lo spettatore raccontando la vita del giornalista-documentarista protagonista in un amaro e sorprendente viaggio nella memoria, ricco di luci e ombre… non a caso il finale gioca con circolarità narrativa a cogliere il significato karmico buddista del titolo (la parola tibetana BARDO) ovvero quello stato di sospensione tra esistenza, non esistenza e rinascita che probabilmente rappresenta l’esperienza culminante e unica che attende ciascuno di noi. Curiosa in chiave discronica la notizia giocata in sottofondo di una famosa multinazionale americana che intende acquistare dal Messico la California meridionale per farlo diventare un nuovo stato dell’Unione.
Della presentazione al pubblico dell’ultima fatica del regista Lars von Trier (al quale è stato appena conclamato il morbo di Parkinson), ‘Riget Exodus’, conclusione della sua opera migliore ‘The Kingdom’, parleremo magari con maggior attenzione in altra sede precisando solo che non raggiunge certo il livello delle prime due stagioni della visionaria saga horror-fantastica creata dal regista nel 1994 e presentata sempre in anteprima alla Mostra del cinema di Venezia.
Per gli appassionati dei corsi e ricorsi storici piuttosto interessante il mockumentary ‘A Compassionate Spy’ di Steve James dove tra interviste (vere) e ricostruzioni ad arte viene raccontata la storia di Ted Hall, l’uomo che chiamato a Los Alamos al progetto Manhattan quale brillante giovane fisico nucleare, dinanzi al suo terribile potenziale di morte decise d’accordo con la moglie e l’amico Saville di passare importanti formazioni all’Unione Sovietica (salvo poi dinanzi alla ferocia e alla follia dimostrata da Stalin averne dei tardivi ripensamenti).
La ricostruzione di un complotto nato come dice il titolo per idealismo e motivi ‘compassionevoli’ è attenta e intrigante e mostra in modo preciso l’umanità e le emozioni dei protagonisti. Va anche detto che il suo lavoro e il suo impegno in Gran Bretagna nel campo della ricerca di strumenti per identificare e debellare il cancro sono stati unici e preziosi riscattando la poco felice scelta precedente.
Nel tralasciare la mediocre presenza italiana a questo festival – dimostrazione ulteriore se mai ce ne fosse stato bisogno del basso livello culturale, politico e manageriale della nostra povera Italia – va però salvato (almeno in parte) il film di Luca Guadagnino ‘Bones and All’ con la giovane star Timothée Chalamet (in procinto di raggiungere la preproduzione della seconda parte del ‘Dune’ di Villeneuve) acclamatissimo con punte di assoluta isteria dalle giovani fans giunte da ogni dove…
La pellicola una sorta di horror moderno che mostra la curiosa presenza di una sub-cultura cannibale nascosta nelle pieghe della nostra quotidianità gioca con il tema regalandoci una storia sospesa tra dramma e romanticismo, dalla cifra stilistica elevata anche se a tratti discontinua.
Giusto per far una citazione fantascientifica anche se con i dovuti distinguo la pellicola mi ha ricordato ‘A Boy and His Dog’ un film a tema post apocalittico del 1975 diretto da L.Q. Jones, tratto e sceneggiato dall’omonimo romanzo di Harlan Ellison con interprete un giovanissimo Don Johnson. La pellicola che vinto all’epoca il Premio Hugo per la miglior rappresentazione drammatica e il Saturn Award per il miglior attore, l’avevo vista nel 1977 nel corso del mio viaggio fantascientifico negli Stati Uniti con Andrea Ferrari.
E parlando di isteria e attese, un momento analogo lo si è avuto per l’arrivo dell’attore-cantautore britannico Harry Styles – poco tempo fa in lizza per il ruolo di Elvis andato poi al collega Austin Butler – al Lido per presentare quel ‘Dont Worry Darling’ diretto dalla sua compagna Olivia Wilde – sì, la stessa del ‘Dottor House’ – che l’ha chiamato alla prova quando Shia La Boeuf, sua prima scelta, ha declinato per contrasti sul set. La pellicola di fatto riecheggia innumerevoli suggestioni – letterarie, cinematografiche e televisive -, prima fra tutte ‘La fabbrica delle mogli’ scritto da Ira Levin e portato a più riprese sul piccolo e grande schermo. In questo caso l’assunto di un mondo (e una vita) perfetti si intreccia con le frontiere delle nuove tecnologie digitali regalando allo spettatore un crescendo che tuttavia risulta assolutamente prevedibile con una chiosa finale che sembrerebbe quasi suggerire la possibilità di un prosieguo in ambito televisivo. Sotto il profilo del gossip va detto che alcune indiscrezioni (già smentite) vogliono la giovane star ventottenne nuovamente fidanzato proprio con la sua co-protagonista Florence Pugh, che già si era fatta notare per ‘Lady Mcbeth’ (2016) e per il recente horror ‘Midsommar’ (2019) mentre dall’anno scorso impersona la ‘Vedova Nera’ nel cinematico metauniverso Marvel.
Realistico e a tratti divertito, con qualche suggestione fantastica la pellicola irlandese ‘The Banshees of Inisherin’ di Martin McDonagh che seppur con un cast eccellente – tra cui spiccano Colin Farrell e soprattutto uno straordinario Brendan Gleason già accreditati per un possibile Oscar – non riesce tuttavia mai a decollare veramente. Decolla invece con successo l’intimistica riflessione familiare proposta – sceneggiatura, regia e produzione – da Joanna Hogg nel suo ‘The Eternal Daughter’ dove una bravissima Tilda Swindon ricopre entrambi i ruoli di madre e figlia in un efficace e coinvolgente gioco giallo dove inquietanti atmosfere sono sottolineate da una musica che declina la quasi totalità della pellicola secondo il modello narrativo di una ghost story nella quale il lato mistery viene risolto solo nel finale rivelatore. Una pellicola elegante diretta con magistrale bravura che conferma ancora una volta l’indubbia levatura della regista che con questa piece completa idealmente la trilogia di ‘Souvenir’ (2019 e 2021) dedicata alla memoria familiare.
Nel mezzo della manifestazione giunge anche la presentazione sulla piattaforma Amazon Prime del atteso prequel de ‘Il Signore degli anelli: gli anelli del potere’ di cui nello spazio news avevo inserito i primi commenti da parte della critica televisiva angloamericana. Giusto per spendere due parole su quella che risulta ad oggi la produzione di maggior costo di Amazon devo dire che al di là dell’estetica ineccepibile, degli effetti speciali superlativi e di un cast tutto sommato efficace trovo che certe scelte obbligatoriamente politicamente corrette e il fatto che tutto sommato che si tratta di una storia che con i dovuti distinguo segue lo stesso percorso della precedente trilogia di Jackson (Sauron non è ancora una essere incorporeo ma uno stregone in carne ed ossa destinato alla meritata fine ingloriosa nel solito scontro finale dove – dopo ripicche, dubbi, tentennamenti e quant’altro – elfi, uomini e nani faranno fronte unico contro il nemico comune…) renda il prodotto scontato e prevedibile, utile per attirare e coinvolgere quelle nuove generazioni che la trilogia di Tolkien (o il ‘Silmarillion’) e le loro controparti cinematografiche non li hanno mai visti.
Mentre il festival si avvia verso la sua conclusione un’altra notazione sorge spontanea. Sarà perché si invecchia tutti, sarà perché la maleducazione post pandemia sembra per molti un must irrinunciabile, di fatto nonostante (o forse per colpa) del posto assegnato ma spesso disatteso, in un evento dove (una volta era anche scritto a chiare lettere sul programma) è vietato entrare a proiezione iniziata per molti critici, operatori o quant’altro (il pubblico pagante è molto più attento e rispettoso) è prassi comune arrivare dopo l’inizio del film costringendo numerose persone ad alzarsi per poter accedere a posti generalmente interni alle file. Non solo, le medesime persone magari dopo appena una mezzora di visione fanno di nuovo spostare tutti per uscire. Se a questo aggiungete coloro che per diarrea, prostata, cistite o altre paturnie (non ultimo usare il telefonino anche se hostess, stewart e sigla iniziale ricordino che tutti i dispositivi devono essere spenti ad ingresso in sala) si alzano per recarsi in bagno (e ovviamente poi tornare) capirete che più che in un tempio della Settima Arte par di trovarsi nel soggiorno di casa durante una festa con amici (invadenti).
Tra le pellicole passate verso la fine segnalerei ancora ‘Siccità’ di Paolo Virzì dove sullo sfondo di una Capitale con il Tevere completamente a secco, l’acqua distribuita solo in alcune ore della giornata, autobotti presidiate dalle forze dell’ordine distribuire massimo 5 litri nei quartieri periferici, nei supermercati trovare quella minerale razionata in misura di una confezione a cliente, con la polizia a caccia di trasgressori, ordinanze di chiusure di esercizi commerciali (dove peraltro non è più possibile neanche avere un caffè) la profetica metafora della caldissima estate di quest’anno si fonde con l’improvviso esplodere di una pandemia di malattia del sonno portata dal dilagare di una infestazione di blatte, il tutto mentre imperversano i soliti furbetti dell’Oro blu e considerazioni politiche venano il divenire (e a tratti intrecciarsi) delle storie dei protagonisti fino al liberatorio temporale finale.
Ultima notazione fantascientifica da segnalare nella pellicola ‘Blonde’ diretta da Andrew Dominik dedicata, con uno stile forse eccessivamente ‘artistico’, alla rievocazione più personale ed intimista della figura di Norma Jean alias Marilyn Monroe qui interpretata dalla cubana Ana de Armas, già vista nell’ultimo 007 e nel recente action-thriller ‘Gray Man’.
Il primo è nella citazione dal film ‘Quando la moglie è in vacanza’ con Marilyn che rievoca e commenta compassionevole la figura de ‘Il mostro della laguna nera’ poco prima della celebre sequenza dell’aria della metropolitana che alza la sua gonna bianca; il secondo invece sottolinea il sesso orale eseguito sul presidente Kennedy sdraiato a letto mentre sul piccolo schermo si avvicendano le sequenze dell’attacco alieno (fatte da Ray Harryhausen) del film ‘La Terra contro i dischi volanti’.
Chiude la nostra carrellata sulla 79ma edizione il protofemminismo mistico di ‘Chiara’ di Susanna Nicchiarelli – già autrice della serie horror-thriller ‘Luna Nera’ – che dopo ‘Miss Marx’ (2020, dedicato alla figlia di Karl Marx) e ‘Nico’ (2017, cantante dei Velvet Underground) chiude idealmente un personale trittico su figure femminili importanti per l’autrice.
Il film in concorso mostra con giocosa linearità la vita e i molti (veri) miracoli dell’omonima santa intrecciata a quella di san Francesco e alle problematiche del suo tempo grazie anche ad una luminosa e brava Margherita Mazzucco (giovane attrice che ha esordito ne “L’amica geniale” nel ruolo di Elena).
Chiudiamo prima di sapere chi vincerà il concorso segnalando l’anteprima mondiale dell’action-thriller-fantastico ‘Copenaghen Cowboy’, ultima fatica diretta da Nicolas Winding Refn ‘costretto’ a casa dalla pendemia. Si tratta di una serie televisiva noir in sei puntate progettata come riconosce lo stesso Refn: ‘per stimolare la mente, gli occhi, la lingua, il cuore e l’anima: tensioni ed emozioni si accendono in un macabro tour de force che si manifesta nella protagonista Miu, una nuova incarnazione dei miei alter ego…’.
Sergio Giuffrida
Classe 1957, genovese di nascita, catanese d'origine e milanese d'adozione. Collabora alla nascita della fanzine critica universitaria 'Alternativa' di Giuseppe Caimmi, e successivamente alla rivista WOW. Dai primi anni Novanta al novembre 2021 è stato segretario del SNCCI Gruppo Lombardo. Attualmente è nel board di direzione con Luigi Bona della Fondazione Franco Fossati e del WOW museo del fumetto, dell'illustrazione e del cinema d'animazione.