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La Stria

La Stria

 

La Stria è stato pubblicato la prima volta il 27 Gennaio 2019
La Stria in alcuni dialetti settentrionali equivale a ‘La Strega‘: in questo caso esperta di erbe.

Il Racconto della Domenica

Whichcraft  was hung, in History,
But History and I
Find all the Wichtcraft that we need
Around Us, every Day

La strega fu impiccata, nella storia,
ma la storia e io
troviamo tutta l’arte magica di cui abbiamo bisogno
intorno a noi, ogni giorno.

(Emily Dickinson)

 

Era uscito esasperato, indeciso se vagare senza una meta oppure raggiungere il centro del paese. Nel silenzio della sera i suoi passi risuonavano secchi e agitati, poi più regolari e ovattati man mano che la distanza da casa si andava allungando. Cominciò a raddrizzare la schiena, rattrappita dalla tensione accumulata e a sentirsi, se non bene, più lucido e calmo. Rare auto transitavano per un attimo davanti ai suoi pensieri come fantasmi baluginanti e veloci, e finì col ritrovarsi davanti al birrificio.
Le vetrine illuminate rimandavano l’atmosfera accogliente del locale, aperto nell’antica osteria che ricordava fin da bambino, quando nei tardi pomeriggi domenicali la Giulia lo spediva a chiamare il bisnonno per la cena perché si stava facendo sera, mentre il vecchio si attardava al tavolo con le carte da gioco, intento all’ultima briscola amichevole che invece era la scusa per l’ultimo bicchiere di vino. La Giulia era sua figlia, mia nonna. All’osteria finiva con una strizzata d’occhio: «Oh, eccoti qui, cavaliere. Vai al banco e ordina un Chinotto, poi andiamo.» Finito di bere si alzava e insieme facevano la strada del ritorno, il nipote tenendolo per mano perché il vecchio dondolava un po’ di qui e un po’ di là, mentre raccontava una delle sue storie di tempi che furono.
Non avevano rovinato il posto, ristrutturandolo, e i due enormi tigli antistanti conservavano quell’atmosfera magica che ricordava bene, riparata dall’entrata in salita, dove l’antico acciottolato era ancora intatto, reso lucido da generazioni di passi mattinieri oltre che pomeridiani e serali, perché l’antica osteria, a quel tempo, comunicava con un secondo locale che era la vecchia drogheria e la gente ci andava a prendere anche il pane. Almeno, chi non se lo faceva in casa.
Altri tempi. Tempi che raramente poteva ricordare un giovane uomo della sua età. In un certo senso si riteneva fortunato ad averli vissuti, anche se solo nel fine settimana, quando i genitori uscivano di città per controllare i nonni. Però c’erano state le estati, le vacanze scolastiche; lì, riprendeva in mano tutto il retaggio del paese e delle sue usanze, e anche dei suoi antenati. Tornava ad essere uno di loro, e non il cittadino fuori per il week end.
Alla fine era venuto ad abitarci, al paese dei bis. Insieme a Chiara.

Entrò e si accomodò su uno dei trespoli davanti al banco, quello che lo metteva nell’angolo con le spalle rivolte al muro e da cui poteva vedere tutto il locale, quasi non visto. Un posto ottimo per non dover fare sorrisi di circostanza o saluti non desiderati, e restarsene tranquillo a bere. I baristi di turno avevano da fare, era l’ora del pienone, e non aprì nemmeno bocca per ordinare. Sapevano già che cosa voleva. Al primo sorso si alzarono le note di Wooden ships. Appoggiò la schiena al muro.
Chiara… Si era immaginato un’altra vita il giorno in cui avevano deciso di metter su famiglia e si erano trasferiti nella casa dei suoi bisnonni; una casa che lei aveva amato subito, per quegli anfratti nascosti e le comodità che offriva, tipici di una costruzione ottocentesca, i soffitti alti, la stufa economica, la cantina sotterranea dove ancora funzionava un forno di mattoni che i vecchi avevano usato in tempo di guerra, quando c’era il razionamento dei viveri e il pane se lo facevano di notte per nascondere il fumo che usciva dal comignolo.
E adesso erano a un punto di rottura. E perché? Per colpa di quel scimmiottino rosa che era Giusi, la loro unica figlia.
Sconsolato, ogni tanto si ricordava di controllare se l’espressione del suo volto atteggiato a persona felice fosse ancora a posto, e non badò alla presenza di un altro avventore che si era seduto al banco vicino a lui.
«Tutto a posto, Luca?» sentì chiedersi. Al tocco di quella voce si voltò di scatto, trasportato a fulminei ricordi lontani che per un istante non riuscì a collocare nel tempo, al punto da non riconoscerla, tanto era confuso e sorpreso. Poi esplosero per prime, nella sua memoria, le tante notti a giocare insieme alla PS2, quando tutto era diventato superfluo, anche le ragazze, e l’unico desiderio era quello di passare alcune ore con un amico.
La bocca gli si aprì nel primo vero sorriso sincero della giornata, o forse di più. Non importava. Gli rispose come se l’avesse visto la sera prima.
«Tutto a posto, niente in ordine!»
Si guardarono in silenzio e poi si abbracciarono, come si abbracciano due uomini quando non si vedono da troppo tempo, e il movimento interiore dell’amicizia che li lega non è cambiato di una sola virgola. Si ritrovarono a un tavolo nella saletta adiacente, quella degli innamorati o di chi non voleva essere disturbato.
«Pietro! Che ci fai qui? Le ultime notizie ti davano in Portogallo. Perché non ti sei più fatto sentire? Mi sei mancato.»
«In Portogallo, e prima ancora in Spagna, e prima ancora in culo al mondo. Dovevo finire delle cose prima di tornare.»
«Delle cose? Ma che cosa hai fatto per tutto questo tempo? Si può sapere?»
«Eh… È una storia lunga. Dopo. Adesso dimmi di te. Cos’è quella faccia? A me non la dai a bere, lo sai. A proposito, ci facciamo un’altra Pils? Offro io. Cosa c’è che non va?» lo inondò a raffica l’amico, ma lui non aveva voglia di tornare sui suoi pensieri.
«Ma niente, adesso sono contento di essere qui. Mi son scordato tutto.»
«Eh, no. A me non la fai. Te lo devo ricordare per l’ennesima volta? Raccontami, dai. Sbrigati.»
Luca fece una smorfia annoiata e, sconfortato e non sapendo da che parte cominciare, s’infilò subito diretto nel problema.
«La nostra piccola…»
«Ah, Giusi. E Chiara? È sempre bella?»
«Sì, è sempre bella. Ma ho la sensazione che tra noi due stia per rompersi tutto.»
«Perché?» lo guardò dubbioso l’amico.
«La piccola, ti dicevo. La piccola  ormai ha dieci anni ed è un problema. Un grosso problema.»
« È malata?»
«No… ma hai presente un muro di gomma? Ecco, la piccola è un muro di gomma.»
«Ah, mi spiace. Di preciso che cosa intendi per muro di gomma?»
«Per farla breve, intendo che ormai Chiara e io abbiamo tentato di tutto, ma non si riesce a parlare con Giusi. Una volta è perfino scappata di casa, è stata ritrovata nel bosco il giorno dopo e si comportava come se tutto fosse normale. L’abbiamo portata anche da uno psicologo, ci siamo andati anche noi. Niente, non se ne viene a capo. Un calvario, ti dico. Gli psicologi dicono che è una bambina normale, ma lei si caccia di continuo in un mare di guai, a volte anche pericolosi e niente, tu cerchi di parlarci, le spieghi, ma non ti ascolta; vuole sempre avere ragione. E se la rimproveriamo scoppia in crisi isteriche e spacca tutto quello che trova intorno, oppure si chiude in mutismi che durano settimane, al punto tale che Chiara e io non sappiamo più se preferiamo la prima o la seconda reazione. L’unico modo per tornare a calmarla è blandirla e darle ragione. Ma tu capisci che facendo così aggraviamo solo le cose? Una volta l’ho sculacciata, aveva veramente esagerato. Risultato: abbiamo dovuto sfondare la porta del bagno, aveva deciso di tagliarsi le vene. Non ti dico lo spavento e la corsa al pronto soccorso. Quel giorno Chiara e io ci siamo guardati mentre eravamo in attesa di un responso dei medici, e abbiamo capito che qualcosa del nostro grande amore stava morendo perché, per non odiare la piccola, stavamo cominciando a odiarci noi due. Sentire la propria figlia come un piccolo dispotico parassita calato nella nostra vita con lo scopo di distruggerla, e senza alcun strumento per difenderci, non ci ha fatto sentire bene.»
«Ma lo psicologo che avete interpellato come ha potuto dire che Giusi è una bambina normale, scusa?»
«Ne abbiamo interpellato più di uno. E non solo per lei, anche per noi. Giusi è intelligentissima: in qualche modo lei capisce sempre molto bene come sfruttare le nostre debolezze e colpirci, poi passa al ricatto; mi vergogno a dire che, qualche volta, in lei ci ho visto qualcosa di demoniaco. Davanti a tutti gli psicologi si è sempre comportata in modo contenuto, anzi, addirittura perfetto, inscenando un teatro di impeccabilità che a me e Chiara ha fatto ogni volta stralunare. Dall’ultimo a cui siamo andati è mancato poco che finissimo, noi genitori, con una segnalazione all’assistente sociale della zona, grazie alle bugie che la piccola aveva raccontato. Bugie, certo, ma abbiamo dovuto sottoporci a parecchi colloqui con l’autorità competente e perfino a confronti con amici e familiari, che hanno negato, ovvio. Tant’è che la bimba, alla fine, visto che il suo castello di menzogne non funzionava, ha ritrattato tutto, adducendo come scusa che il suo era solo un sogno, mica la realtà.»
Quando Luca ebbe finito di parlare, Pietro sorrideva. Quella sua reazione lo rinfrancò, perché sapeva che l’amico non lo stava sottovalutando, ma piuttosto stava pensando a escogitare qualcosa. Si dispose all’attesa, svuotato e più tranquillo, levando le braccia dal tavolo e lasciandosi andare sulla sedia, rilassato.
Tornò con l’attenzione viva di prima quando Pietro ruppe il silenzio.
«Forse posso aiutarti. Domani rivedo i miei, non sono ancora andato a trovarli. Tu sai che i miei sono dell’alto lago…»
«Sì, mi ricordo.»
«Bene. Loro conoscono una persona, spero sia ancora viva. La gente del posto la chiama la Stria, la strega, perché maneggia le erbe. Conosco persone che hanno risolto grossi problemi, grazie a lei. Non ti prometto niente, eh, ma farò l’impossibile per rintracciarla.»
Luca lo guardò sorpreso. Se glielo avesse proposto un estraneo gli avrebbe riso in faccia, ma detto da Luca che notoriamente era restio a credere a qualunque cosa si avvicinasse anche solo di un filo all’esoterico, al magico, insomma a quel genere di storie che con lo scientifico nulla hanno a che vedere, gli aveva prodotto una profonda impressione. Se non altro, sentì rinascere una debole speranza.
Quella sera si lasciarono, di nuovo riuniti, con la certezza che si sarebbero rivisti presto.

Un paio di settimane dopo il cellulare squillò. Era Pietro.
«Ti va bene se ci troviamo a Porlezza sabato mattina alle dieci? Ho trovato la Stria! Le ho parlato e ti aspetta per mezzogiorno a casa sua. Non le ho anticipato quasi nulla. Le ho solo detto che un amico ha un problema insolubile, e lei ha accettato di incontrarti.»
Per qualche motivo sconosciuto perfino a lui stesso, Luca si sentì felice. Da tempo immemorabile non sentiva quel battito eccitato che spunta quando si ha la sensazione che qualcosa di importante o decisivo stia per accadere; ma evitò di pensarci fino al giorno dell’appuntamento per scaramanzia. E il sabato si presentò alla donna, mentre Pietro aspettava a casa dei suoi, dopo averlo accompagnato in cima alla collina dove lei abitava.
Non c’era campanello. Fu lei a uscire nel cortile e a farsi avanti sul sentiero, aprendo il vecchio cancello di ferro battuto, mentre si offriva tranquilla e imperturbabile allo sguardo di Luca, maneggiando con sicurezza e precisione una serratura complicata. Luca la osservava intimidito: poteva essere una donna sui quarant’anni o sui sessanta, non c’era verso di darle un’età definita. Si chiedeva se a trarlo in inganno fosse il suo corpo adolescenziale modellato dentro un maglione e un paio di blue jeans che accentuavano il fascino androgino che emanava. Incuriosito, le diede la mano sorridendo e si presentò.
Lo introdusse in un vasto salone e Luca rimase a bocca aperta: le pareti erano ricoperte di scaffali di libri e, dove era stato lasciato uno spazio, c’era qualche quadro a dare una nota di colore, ma l’ambiente era combinato in modo tale da non essere oppressivo, tutt’altro, la sensazione generale era di un raccoglimento intelligente e meditativo. La donna colse lo sbigottimento di Luca e lo invitò a sedersi con un sorriso cordiale: «Le piace leggere, Luca?»
«Moltissimo, ma non ho più tempo» fu l’unica sua risposta.
«Tornerà a leggere, vedrà. Anzi, qualcosa di più. Che mi dice della sua Nema sul treno in partenza da Milano?»
Luca si alzò dalla poltrona come se fosse stato punto da un serpente, incredulo. Come poteva sapere, quella donna, della protagonista di un suo romanzo lasciato a metà? Nessuno sapeva di quel suo romanzo. Nemmeno a Chiara ne aveva parlato.
La donna rise, soddisfatta. Ora aveva tutta l’attenzione dell’uomo.
«La prego, torni a sedere, Luca. E mi racconti tutto.»
Lui ubbidì, tornando lentamente a sedersi, guardandola negli occhi sorpreso. Fece qualche respiro profondo nel tentativo di raccogliere le idee e rompere il ghiaccio del mutismo, e all’improvviso fiumi di parole trattenute per anni uscirono dalla sua bocca come la furia dell’acqua che irrompe quando una diga crolla. Parlò a lungo fino a quando la voce non gli divenne roca e mai la donna lo interruppe, né tentò di fermarlo anche solo con un’espressione che denotasse una sorta di giudizio. Alla fine tacque, svuotato e leggero, spossato.
«Le andrebbe di bere qualcosa? Venga con me» si risolse la donna, alzandosi.
Luca la seguì in quella che si rivelò una vecchia cucina ampia, di quelle di una volta. La vide trafficare ai fornelli, versare qualcosa di profumato in una tazza.
«Beva. La tranquillizzerà e allo stesso tempo le infonderà energia. È un intruglio di erbe, un mio esperimento. Funziona, sa?» e tornò a ridere della sua risata argentina. Dopo quello che gli aveva detto all’inizio, Luca avrebbe bevuto qualsiasi cosa gli avesse offerto.
«Mi ascolti, Luca» riprese lei, ora con lo sguardo serio e deciso piantato negli occhi di lui, mentre lui sorseggiava l’intruglio, «la sua bambina non conosce due cose molto importanti, anzi, fondamentali: non sa che cosa siano la paura e la morte. È temeraria e si crede immortale. Adesso le spiegherò che cosa dovrà fare.»
Più tardi, quando Luca raggiunse Pietro, gli raccontò tutto e gli disse che aveva bisogno del suo aiuto. Concertarono per il resto della giornata. Luca sentiva che quella donna aveva ragione, nonostante i suoi suggerimenti potessero sembrare poco ortodossi, o perlomeno strani. Vedeva con chiarezza una cosa: le soluzioni che gli offriva attingevano a una sapienza antica e pragmatica che curava le cose all’origine. E le modificava.

Ai primi di ottobre, Giusi cominciò ad avere un’espressione meno sprezzante del solito. Ogni tanto guardava furtiva dalla finestra della cucina che dava sul vicolo. Luca osservava in silenzio. Non aveva detto nulla alla moglie, nel timore che rovinasse tutto o non fosse d’accordo. E alla fine arrivò Halloween: pianto e stridor di denti durante la giornata, era ovvio, perché a Giusi non piacevano i pizzi del vestito da sirenetta che Chiara le aveva confezionato con le sue mani, dopo decine di giri a vuoto per negozi la settimana prima, perché nulla accontentava la piccola. Temeva che Giusi, per dispetto, decidesse di restarsene in casa e quindi aiutò la moglie a fare le modifiche che la bambina pretendeva. La madre guardava il padre stupita perché, in occasioni simili, lui prendeva la giacca e se ne usciva sbattendo la porta. Finalmente Giusi strappò il vestito dal grembo della mamma e se lo infilò tutta trionfante in camera sua, prese il cestino dove avrebbe raccolto i dolcetti e li salutò con una smorfia astiosa.
In casa tornò la tranquillità. Luca ogni tanto fischiettava, Chiara lo guardava perplessa.
Alle nove e trenta, dal vicoletto che portava alla strada maestra, sentirono uno scalpiccio veloce e urla raccapriccianti. Luca fece segno a Chiara di stare ferma e si precipitò fuori con un balzo.
Qualcuno, grande e grosso e vestito di nero, aveva catturato Giusi e la teneva agganciata per il collo trascinandola via. Il viso della bambina era una maschera di paura, reso irriconoscibile da un terrore sacro che la faceva urlare come mai Luca l’aveva vista urlare. Il padre fece un salto e strappò la bambina all’energumeno, minacciandolo con una voce feroce. Lo sconosciuto, impaurito, se la filò in tutta velocità e padre e figlia tornarono in casa di volata; dalle finestre dei vicini cominciavano ad apparire volti curiosi e apprensivi. Appena varcata la porta Luca vide Giusi precipitarsi nelle braccia della madre, il padre la osservò sbigottito: era la prima volta che vedeva la bimba chiedere protezione e aiuto. Tra singhiozzi e singulti, raccontò che un uomo nero la stava per rapire. Un uomo nero che la seguiva da un pezzo.
«Oh, mamma. Se non fosse arrivato il papà…» e giù di nuovo a piangere a dirotto. Chiara trasecolava, era la prima volta che la figlia parlava così di suo padre. Guardava Luca che le strizzava l’occhio e non capiva.
«Esco un attimo e vado a cercare quell’imbecille. Torno subito» disse Luca a entrambe, acchiappando un bastone. La bambina guardò la madre: «Oh, mamma. Papà fa come Batman!»
Arrivando all’inizio del vicoletto cominciò a urlare minacce nella notte e, girato l’angolo, si sottrasse agli sguardi di madre e figlia incollate alla finestra. Lì lo aspettava Pietro, come da accordo.
«Credo che tua figlia questo Halloween se lo ricorderà per un bel pezzo!» rideva l’amico.
«Lo credo anch’io. Mai vista una scena d’amore così totale in casa mia. Avresti dovuto vederla come è corsa nelle braccia di sua madre!»
«Ok, amico. Fine del primo atto. Ci si sente. Scappo perché adesso ho da fare. Ci sentiamo domani.»
«’notte. Ah, Pietro… grazie.»
«Figurati. Tu non lo faresti per me?»
Si dileguò nel buio, seguito dal sorriso di Luca che restò a lungo immobile sulla strada, prima di rientrare. Quando decise che era arrivato il momento giusto, si scompigliò i capelli e si strappò la camicia.
«Catturato e portato al comando di polizia! Quel bruto ha smesso di impaurire le bambine» annunciò trionfante, aprendo di colpo la porta. «Ora è in custodia. E adesso, ragazze, forza perché si è fatto tardi.»
Prese Giusi in braccio e la portò al piano di sopra, direttamente in bagno.
«Dai, lavarsi i denti e poi filare a letto. Per stanotte di emozioni ne abbiamo avute abbastanza.» La bimba si sporse e baciò il padre sulla guancia. Al padre si inumidirono gli occhi e voltò la faccia dall’altra parte.
Chiara lo aspettava di sotto.
«Hai qualcosa da dirmi, Batman?» lo apostrofò con una voce dolce.
«Del tipo?» le rimbalzò Luca.
Quella notte fecero l’amore come ormai non se lo ricordavano più.

Nelle settimane seguenti la bambina ebbe una trasformazione miracolosa. Ogni tanto il suo carattere dispotico riaffiorava, forse più per abitudine che per volontà, e tornavano i suoi antichi capricci, ma era più facile sedarli perché la bimba si era ammorbidita e cominciava a discutere in termini ragionevoli.
L’occasione per il secondo atto venne per le feste natalizie. Raccontarono a Giusi – ormai anche Chiara faceva parte della commedia – che una figlia di loro amici era morta per un incidente, e che sarebbero andati a fare le condoglianze tutti insieme. Telefonarono agli sfortunati genitori e si diedero appuntamento direttamente all’obitorio, prima che sigillassero la cassa.
Arrivati alla camera mortuaria, Luca notò un moto di ripugnanza quando la bimba scorse da lontano la piccola salma. La prese in braccio e si avvicinò al feretro, finse di inciampare e la manina di Giusi finì con il toccare il viso della morticina. Sentì il suo corpo paralizzarsi: «Papà, è fredda. Di un freddo che mi entra nelle ossa e non si stacca.»
«Sì, amore, lo so. Questa è la morte.»
La bimba guardò negli occhi il padre e non parlò più. Volle scendere e si diresse verso i due sfortunati genitori. In silenzio li abbracciò entrambi.
Quando uscirono e Luca portò l’intera famiglia al lago, gli occhi di Giusi brillavano di una luce che non le aveva mai visto. E per tutto il giorno giocò, giocò spensierata, giocò come non l’aveva mai vista giocare.

Tornò dalla Stria in primavera. Voleva ringraziarla, ma quel giorno nessuno si affacciò nel cortile. Lasciò dentro il cancello un mazzo di rose e un pacchettino, con un biglietto: “Giusi è cambiata, ora ama e si fa amare. Grazie.”. E in fondo c’era una postilla. “Non le farò pubblicità, come mi ha chiesto, tranne che per casi impossibili. Luca”.
Dentro il pacchettino c’era il suo romanzo. Lo aveva concluso.

Questo racconto è World © di Tea C. Blanc. All rights reserved

 

Tea C. Blanc
Tea C. Blanc
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È comasca. Vive un po' a Como, un po' in Svizzera. Collabora ad alcune riviste, sia cartacee che digitali. Ha pubblicato un racconto di genere fantastico con Edizioni Dell’Angelo; il romanzo dagli spunti fantascientifici “Mondotempo” (Watson Edizioni, collana Andromeda). Ha partecipato a varie antologie di autori vari con racconti o saggi. Finalista a vari premi, tra cui Premio Urania nel 2024.

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