Dove uno è
Il Racconto della Domenica
Dove uno è
Io c’ero e pensai che tutto potesse cambiare, e lo fece… però…
Fu quando nel cielo si profilarono le lucenti sagome delle astronavi aliene, sicché metà dell’umanità festeggio e l’altra metà… se la fece sotto.
Io stavo semplicemente attento.
Ovviamente non le vidi subito, ma solo dopo qualche anno me ne capitò una davanti.
Se ne stava lì, sospesa nel cielo, non proprio immobile, ma leggermente fluttuante, tanto per far capire che non era appoggiata su qualcosa, ma sorretta da una misteriosa energia.
Era tutta dorata e, così, ben si stagliava contro il cielo azzurro. La guardavo dal basso e mi sentivo un po’ soverchiato, come un uomo che sta di fronte a una dea. Era come una specie di candelabro rivolto verso l’alto e variamente ramificato, sul quale spiccavano preziosi gioielli. Ricordava anche un po’ l’immensa spilla di una vecchia zia.
La cosa strana è che le loro navi sono simili tra loro ma tutte diverse, come se essi avessero sviluppato una potente civiltà tecnologica e industriale, senza però perdere le qualità distintive di una cultura prevalentemente artigianale. Di certo erano degli spiriti creativi.
Appena si diffuse la notizia, come molti del resto, presi una mezza di ferie e tornai a casa di corsa per guardare i notiziari.
Zio Bepi era già spaparanzato sul divano del soggiorno che si godeva l’invasione in 4K. Erano già due anni che viveva da noi, da quando lo avevano licenziato dalla Siemens perché si era messo in malattia e poi lo avevano visto in TV che si scalmanava con gli altri tifosi della sua squadra del cuore. Io volevo bene allo zio, così avevo rinunciato alla mia tavernetta, dove in fin dei conti tenevo solo un vecchio flipper e gli assicuravo un piatto caldo ad ogni pasto. Beh, in fondo la zio Bepi e il vecchio flipper se la intendevano magnificamente, così lui un lavoro non l’aveva mai più trovato ed ora era un uomo felice.
«Boia Can!» stava dicendo. «Hai visto Franco? Son atterrà gli alieni. Boia Can d’un can!»
«Urca!» dico io.
«Ma state un po’ zitti, che non sento!» si lamentò la Gioia, mia moglie, che se ne stava dall’altro capo del divano, tutta addossata al bracciolo, come se zio Bepi le facesse un po’ schifo.
Io mi sedetti nella poltrona di fianco e notai che Gioia indossava una vestaglietta corta che le metteva in mostra le gambe. Non ci crederete, ma dopo dieci anni di matrimonio quando vedo le cosce della Gioia io mi sento sempre un po’ rimescolare. Tuttavia fui distratto dalla drammaticità degli avvenimenti.
«Stanno atterrando, è evidente,» diceva la voce di un giornalista mentre il video mostrava le immagini tremolanti di un’astronave, ripresa con uno zoom da una distanza considerevole.
«Non c’è dubbio che non sono qui solo per dare un’occhiata dall’alto,» fece la voce di un esperto di qualcosa che fu inquadrato per un attimo.
Oh, non sto a farvi la cronaca di quella telecronaca, perché alla fine quel giorno non è che accadde chissà che. Se non una cosa che avrebbe dovuto mettere tutti sul chi va là e invece non lo fece.
Gli alieni atterrarono per la maggior parte sulle coste dell’Australia e nelle isole del Pacifico senza interessarsi minimamente alle città.
«Sono venuti per fare una vacanza al mare,» commentò lo zio, e non è che la qualità del dibattito sull’argomento risultasse poi molto più intelligente.
Si pensò che avessero commesso un errore perché non conoscevano la nostra civiltà, ma che presto avrebbero compreso. Cosa che poi però non avvenne.
Ovviamente per un po’ ci fu anche un allarme militare.
Gli alieni senza minimamente occuparsi degli umani o cercare un contatto con loro, iniziarono a sistemare degli insediamenti sulle coste più disabitate. Quindi, si discusse molto se considerare questo un fatto ostile, ma si ha un bel prendersela con qualcuno che non ti dà minimamente retta e che si prende solo cose che a te visibilmente non interessano. Tanto più che non sottraevano risorse, tranne forse un po’ acqua di mare. Ciò che serviva loro arrivava direttamente dal cielo.
Dopo che fu tolto il cordone militare, alcuni reporter vi si recarono e nessuno degli alieni ebbe niente da ridire. Così le telecamere mostrarono delle belle cittadine, con edifici bassi ed eleganti e una atmosfera gradevole. Ci saremmo andati tutti in massa, ma, come sottolineò mia moglie, gli alieni non avevano negozi e la gente non va mai nei posti dove non si possono acquistare souvenir.
Ci abituammo alla cosa.
Si fecero tanti dibattiti e facemmo anche parecchio gli spiritosi. In mancanza dei souvenir alieni fiorì il mercato dei gadget legati alla loro presenza: pupazzetti, boule de neige, portachiavi con le forme delle loro navi. Anche l’arte fu influenzata da quell’arrivo, sia l’arte figurativa che la cinematografia, e devo dire che “L’invasione degli enigmati” mi impressionò parecchio – ipotizzava che quelli stessero rubando tutto il ferro del nucleo terrestre, cosa che poi avrebbe causato un’implosione del pianeta.
Tutte fanfaluche, ovviamente.
Ma ben presto accadde una cosa nuova. Vennero navi di altre specie aliene. Scendevano visitavano l’insediamento e poi se ne andavano. Questo voleva dire che non solo non eravamo soli nell’Universo, ma che, forse, là fuori c’era una civiltà galattica vera e propria.
Ben presto questo causò una sorta di depressione mondiale.
Gli uomini, seppur ormai consapevoli della vastità dell’universo, ancora si sentivano al centro del proprio mondo. Quella rivelazione, invece, li collocava irrimediabilmente in una sorta di periferia dell’impero, un pianetino di buzzurri in cui esseri civili capitavano un po’ per caso e vi si fermavano solo per dare un’occhiata anche un po’ distratta.
Questo provocò sicuramente un grande ridimensionamento dell’enfasi che gli esseri umani e in particolare i media mettevano sugli accadimenti quotidiani. Tutto appariva ora un po’ futile.
E la cosa fu aggravata quando si capì che in realtà c’era qualcosa che conduceva gli alieni sulla Terra, ma non eravamo noi.
Lo so che la risposta sarebbe stata ovvia anche per un tizio dei primi anni duemila, ma la cosa avvenne esattamente come era già stata ipotizzata da alcuni. Gli alieni non comunicavano per nulla con gli umani, ma si interessavano molto ai cetacei. E viceversa.
Balene, delfini, dugonghi, narvali e lamantini in quantità iniziarono a riversarsi su quelle coste come in pellegrinaggio e gli scienziati compresero che tra alieni e cetacei si era avviato un dialogo fitto e appassionato da cui noi, tuttavia, eravamo irrimediabilmente esclusi.
Immediatamente fu fermata ogni caccia a questi mammiferi, perché da un lato si comprese che la loro intelligenza meritava davvero quel rispetto che fino a quel momento le era stato negato, dall’altro si temeva che giungessero autorità interstellari a fulminarci per la caccia alle balene. Come minimo avremmo fatto una figuraccia di proporzioni inimmaginabili.
La specie umana non si è più ripresa da quel senso di marginalità. Facciamo le nostre cose, cerchiamo di migliorarci, ma con la consapevolezza che ovunque nel cosmo è diffuso un grado di conoscenza e di civiltà che ci è ancora preclusa, o che forse mai ci sarà data. Siamo una periferia del cosmo, senza alcuna importanza.
Neanche il pianeta è più tanto nostro, perché è invece evidente a tutti che gli esseri più autorevoli che lo popolano sono nei mari.
Io tuttavia non mi abbatto, non demordo. Non mi lascio prendere dalla sensazione di vivere in periferia, perché credo molto in una cosa che mi disse a riguardo il nonno di mia moglie prima di morire.
Mi disse: «Vedi Franco, a ben vedere, il centro dell’Universo è… dove uno è.»
“Dove uno è” © Giorgio Sangiorgi 2020
Copertina: di Giorgio Sangiorgi
Edizioni Scudo
Giorgio Sangiorgi
Sangiorgi lavora e vive a Bologna. Dopo un esordio nel campo del fumetto, ha vinto alcuni premi letterari locali per poi diventare uno degli autori e dei saggisti della Perseo Libri Il suo libro "La foresta dei sogni perduti" ha avuto un buon successo di pubblico. Ora pubblica quasi esclusivamente in digitale e alcuni suoi racconti sono stati tradotti e pubblicati in Francia e Spagna.