Jerry Goldsmith e Franklin J. Schaffner
Jerry Goldsmith (1929-2004) è stato uno dei più importanti compositori di colonne sonore della storia di Hollywood. La sua carriera iniziò in radio nel 1950 e continuò senza soste fino alla sua morte.
Benché l’industria cinematografica lo avesse specializzato in film d’azione e horror, conservava una vena melodica e sentimentale che ebbe poche ma significative occasioni di manifestarsi, ma al contempo fu anche un grande sperimentatore e innovatore, sempre alla ricerca di soluzioni espressive nuove e inedite per il grande schermo.
Vena sperimentale che in verità si rivelò quasi esclusivamente negli anni ’60 e ’70… quando certe cose a Hollywood si potevano fare, prima che lo show business preferisse appiattirsi su moduli (anche musicali) convenzionali e rodati.
Goldsmith fu ben 18 volte candidato al premio Oscar ma ne vinse uno solo, per la colonna sonora di Il presagio (“The Omen”, 1976): secondo una non univoca ma diffusa opinione si tratta del miglior commento musicale mai scritto per un film horror.
Fu un compositore decisamente fecondo, con circa 250 fra colonne sonore per cinema e tv e sigle televisive, a cui vanno aggiunti i lavori radiofonici giovanili e 5 brani da concerto.
In tanta mole ovviamente la qualità è alterna ma i capolavori non mancano.
Con diversi registi (fra cui John Frankenheimer, Michael Crichton, George Pan Cosmatos, Joe Dante) instaurò collaborazioni frequenti, più o meno stabilì, ma fra tutte queste la più importante, sia dal punto di vista umano che artistico, fu quella con Franklin J. Schaffner (1920-1989), del quale musicò 7 film: Donna d’estate (“The Stripper”, 1963), Il pianeta delle scimmie (“Planet of the apes”, 1968), Patton, generale d’acciaio (“Patton”, 1970), Papillon (id., 1973), Isole nella corrente (“Islands in the stream”, 1977), I ragazzi venuti dal Brasile (“The Boys from Brazil”, 1978), Cuor di Leone (“Lionheart”, 1987).
In un concerto tenutosi a Londra il 17 agosto 1989, Goldsmith ricordò così il regista:
“Una volta nella vita capita che fai l’incontro con una persona che causa profondi effetti, ispirandoti nuove forme espressive e creative che altrimenti resterebbero sopite. Il mio caro amico e collega Franklin J. Schaffner fu quella persona. La nostra relazione fu lunga, durò oltre 30 anni e 7 film. Ogni film con Frank fu una pietra miliare per me, un periodo di crescita artistica, di sviluppo emotivo e creativo. Il 1° luglio Franklin è morto.”
Dei 7 film citati prima, due sono etichettabili come fantascienza, e tratteremo qui le loro musiche: Il pianeta delle scimmie e I ragazzi venuti dal Brasile. Goldsmith dichiarò più volte che ogni film con Schaffner fu per lui il motivo di studiare stili musicali per lui insoliti, o di approfondirne altri già trattati, ma sempre rinnovandoli e facendoli propri.
Per commentare Il pianeta delle scimmie, Goldsmith scelse di ricorrere alla musica seriale: ancora una volta una scelta insolita per il cinema americano, sia pur fantascientifico.
Goldsmith seguì rigorosamente le regole dettate dal musicista austriaco Arnold Schönberg (1874-1951) nel 1923, quando codificò la tecnica compositiva detta seriale o dodecafonica.
Essa consiste nell’impiegare tutta la gamma di 12 note (non solo le tradizionali 7) e stabilì che le composizioni dodecafoniche fossero suddivise in una sequenza di “serie”.
La serie è un gruppo di note (possono essere tutte e 12 o solo alcune di esse) e ogni singola nota inserita nella serie non può essere ripetuta prima che tutte le altre note della stessa serie siano state suonate.
La scelta “seriale” per una colonna sonora, specie hollywoodiana, non era del tutto nuova, ma era forse la prima volta che una colonna sonora fosse del tutto struttutata in quel modo, se si eccettuano le sperimentazioni dei film surrealisti degli anni ’20.
Ma Goldsmith non si fermò qui. Come è noto, il film si basa su un romanzo di Pierre Boulle e racconta le disavventure di Taylor (Charlton Heston), astronauta che atterra in un pianeta dove le scimmie sono la specie dominante e gli uomini vivono allo stato animale, cacciati e disprezzati.
Per sottolineare il senso di straniamento e di alienazione vissuto dal protagonista (e comunicarlo allo spettatore-ascoltatore), Goldsmith inserì nell’orchestra una gamma incredibile dei più disparati strumenti, inclusi quelli etnici o sperimentali: corni da caccia senza bocchino, conchiglie hawaiiane, tamburi rullanti, percussioni metalliche più o meno convenzionali.
Gli strumenti tradizionali sono presenti, ma usati in maniera insolita, e così abbiamo un pianoforte suonato in funzione ritmica, un contrabbasso in funzione melodica, ottoni suonati solo con i pistoni e senza fiato, xilofoni.
Le melodie sono ora lente ed evocative, ora violente e sincopate, ma sempre immergono chi le ascolta in un senso di inquietudine e di allucinata “alterità”.
Un’altra particolarità della colonna sonora è che non presenta un vero e proprio tema conduttore, ogni brano si distacca da tutti gli altri senza riferimenti interni o ripetizioni: un altro espediente che lascia lo spettatore privo di punti di riferimento.
Solo due brani mostrano somiglianze: The Hunt e No Escape. Il primo commenta l’entrata in scena delle scimme, in una battuta di caccia dove gli uomini sono le prede.
Il ritmo travolgente, le sonorità violentissime e bizzarre comunicano in pieno tanto lo stupore del protagonista Taylor che il panico delle “prede” in fuga; molti considerano questo brano il migliore di tutta la colonna sonora, ed è stano che fosse assente nell’lp uscito nel 1968; fu poi reinserito nelle varie versioni su cd uscite a partire dal 1992.
No Escape accompagna la fuga di Taylor dallo zoo in cui è rinchiuso nelle strade della città delle scimmie; nel corso del brano si riascoltano alcune delle serie di The Hunt, alternate con altre nuove.
In The Trial abbiamo un altro esempio della bizzarra strumentazione scelta da Goldsmith; il brano è cadenzato da uno strumento che Goldsmith chiamò “campana della morte”: una campana al cui interno, invece del batacchio, c’è una sbarra di alluminio, che emette note glaciali ed eteree al tocco dell’esecutore.
Nello stesso concerto del 1989, Goldsmith rivelò un altro ricordo di Schaffner:
“Diversamente da altri registi, la cui conoscenza musicale è limitata e il cui dialogo con il compositore è formale, Franklin era sia articolato che conciso. Ad esempio, la sua unica istruzione per le musiche di I ragazzi venuti dal Brasile fu di tre parole: Punto, 3, 4. Voleva che l’intero commento fosse un grande valzer.”
Goldmith si ispirò quindi alla tradizione dei valzer viennesi di fine ‘800 per comporre il tema conduttore, appunto un valzer, che si riallaccia alla tradizione dei ballabili composto dai membri della famiglia Strauss in quel periodo.
I ragazzi venuti dal brasile, tratto da un romanzo di Ira Levin, mescola complottismo paranoico, personaggi storici reali e “fanta-biologia”.
Prende spunto infatti dalla figura di Joseph Mengele, genetista tedesco che nel campo di sterminio di Auschwitz, durante la II Guerra Mondiale, condusse esperimenti su cavie umane.
Nel film si immagina che Mengele (Gregory Peck) cloni il DNA di Adolf Hitler per riprodurlo in 94 cloni umani sparsi per il mondo, nati negli anni ’60 e destinati a riportare il nazismo nel mondo.
L’anziano ebreo viennese Ezra Liebermann (Laurence Olivier), cacciatore di nazisti e superstite di Auschwitz, scopre le trame di Mengele e cerca di fermarlo.
Goldsmith affermò che “l’evoluzione” nella sua carriera promossa da questo film fu che per la prima apportò nel suo stile influenze non solo dei fratelli Strauss ma anche di Richard Wagner (1813-1883), il compositore tedesco che rivoluzionò la musica lirica con le sue opere dallo stile magniloquente ed epico.
Si può dire, che nella sua colonna sonora, abbia dato un’anima straussiana al personaggio di Liebermann e una wagneriana a Mengele, ma sempre reinerpetando simili fonti in una forma allo stesso tempo personale e funzionale alle esigenze del film.
Così il tema conduttore unisce la sontuosa gioiosità tipica dei ballabili viennesi (e in particolare di Johann Strauss) a uno spirito più sanguigno, con una strumentazione insolitamente “chiassosa”, una melodia più aggressiva rispetto agli originali.
La lezione wagneriana si riflette nelle musiche che commentano le azioni del diabolico Mengele. Anche se il ritratto che se ne dà sconfina purtroppo nella parodia involontaria (complice l’interpretazione sopra le righe di Peck), Goldsmith rirpopone la maestosità dello stile di Wagner sposandola con i ritmi incalzanti tipici delle musiche da lui composti per i thriller, un suo marchio di fabbrica specialmente in quel periodo, la seconda metà degli anni ’70.
Questo stile “wagner-sincopato” riesce a comunicare sia la grandiosa follia che la minacciosità di Mengele e ha un risultato particolarmente felice in The Hospital, il brano che accompagna la scena in cui Mengele ricorda la gestazione e poi la nascita dei cloni nella clinica clandestina da lui aperta nella foresta brasiliana; in questo brano passiamo da una musica sognante e solenne (quasi una mini-ouverture) a toni via via più bruschi e nervosi.
Mario Luca Moretti
Altri interessi oltre al cinema e alla letteratura SF, sono il cinema e la la letteratura tout-court, la musica e la storia. È laureato in Lingue (inglese e tedesco) e lavora presso l'aeroporto di Linate. Abita in provincia di Milano